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 2014  febbraio 02 Domenica calendario

IL PREMIER ERDOGAN NELLA TEMPESTA PERFETTA


Come va in crisi un Paese tra i più promettenti del mondo? Davanti al Bosforo, in un’assolata mattina di venerdì, Cengiz Candar, grande reporter turco che tra una guerra e l’altra in Medio Oriente fu nel ‘91 consigliere del presidente Turgut Ozal e ora gode anche della stima di Abdullah Gul, è in vena di confidenze. «La Goldman Sachs mi ha convocato qualche giorno fa tempestandomi di domande sulle possibili opzioni politiche in Turchia. Per quale ragione? Le banche straniere, mi hanno detto, sono esposte qui per 350 miliardi di dollari ed è chiaro che valutano attentamente il rischio Paese».
Per il primo ministro Tayyep Erdogan, Goldman Sachs è come la Spectre nella saga di James Bond, l’emblema della vituperata lobby dei tassi di interesse che quel pomeriggio di una oltre settimana fa, nel venerdì nero, tirava bordate alla lira turca.
Cengiz espone il suo pensiero con educata ironia. «Ci aspettano le elezioni municipali il 30 marzo e in estate quelle per il presidente della repubblica, le prime con il voto popolare, e ogni argomento torna utile: anche le teorie del complotto». Per Erdogan tutto è cospirazione: il tapering americano, la restrizione internazionale di liquidità e la fuga di capitali dai mercati emergenti verso il dollaro, la sterlina, lo yen.
Goldman Sachs, in un rapporto di dicembre dal titolo significativo "L’onda è finita", aveva sentenziato: riducete le esposizioni sui mercati emergenti di un terzo perché i guadagni non si sono rivelati attraenti come atteso, i tassi di crescita economica non sono sostenibili e quelle nazioni non sono così stabili come avevamo creduto.
Le banche d’investimento e la Fed suonavano così la campana dell’ultimo giro di giostra per i "Next Eleven", gli 11 Paesi che proprio la Goldman Sachs aveva identificato nel 2005 a maggiore crescita. In Turchia coincideva il 17 dicembre con l’esplosione della Tangentopoli: un drappello di ministri costretti alle dimissioni per sospetta corruzione, lo scontro tra Erdogan e l’ex alleato imam Fetullah Gulen, al quale si aggiungeva quello con la magistratura e la polizia che indagano sugli scandali.
A proposito della bufera giudiziaria, l’agenzia di rating Fitch avverte che lo scandalo di corruzione, pur non avendo un impatto immediato sulla valutazione "BBB-" attribuita alla Turchia, potrebbe alla lunga far sentire i propri effetti indebolendo la capacità del governo di prendere misure adeguate.
La tempesta perfetta: crisi valutaria e politica insieme. Del resto l’allarme era già scattato l’estate scorsa dopo la dura repressione delle manifestazioni di Gezi Park quando la lira era entrata nel collimatore dei mercati e le agenzie del debito - le stesse che fino a poche settimane prima cantavano come sirene le lodi del "riformista Erdogan" - avevano abbassato il rating dei bond turchi.
Nick Andrews, analista della GaveKal, società di ricerca americana, appartiene al fronte dei negazionisti: «Non esiste un complotto o un legame tra le scelte della Fed e la crisi della lira, quel debito di 350 miliardi di dollari verso le banche estere è pesante mentre il governo e la Banca centrale hanno scelto per mesi la strada dell’immobilismo, una miscela letale per la moneta turca».
Quel venerdì sul Bosforo la Banca centrale bruciava un’ultima tranche di 3 miliardi di dollari per difendere la lira ma stava anche preparando la mossa clamorosa che l’ha portata cinque giorni fa ad alzare i tassi massimi dal 7,75 al 12% (quelli medi dal 5 al 10%), uno shock che Erdogan non ha digerito ma neppure i mercati: la lira rimane sotto il tiro della speculazione.
Anche il mondo degli affari è diviso. Il presidente della Tusiad, la Confindustria turca nel mirino degli insulti di Erdogan, sostiene la mossa della Banca centrale guidata da Erdem Basci, che nel 2013 era stato nominato da Euromoney "banchiere dell’anno": «La stabilità dei prezzi - dice Muharrem Yilmaz - è essenziale per la competizione sui mercati». Non la pensa così la Musiad, cui aderiscono gli imprenditori vicini al partito islamico Akp: «Era meglio - sostengono i conservatori religiosi del business - continuare con una politica monetaria non ortodossa e favorire la crescita, abbiamo ceduto alla lobby dei tassi».
A chi dobbiamo credere: ai complottisti o ai negazionisti? La Turchia, nel lungo decennio dell’Akp al potere, ha dato grandi soddisfazioni agli investitori finanziari e industriali. Pil e reddito sono triplicati, questa è la sedicesima economia mondiale, i consumi interni sono esplosi. «Il 60% della popolazione appartiene ormai alla classe media: qui circolano 40 milioni di carte di credito, in Italia meno di 36 milioni», fa notare Giuseppe Scognamiglio, diplomatico prestato alle banche e responsabile Public Affairs di Unicredit che in Turchia realizza quasi il 50% degli utili del gruppo.
Ma è pure un Paese che è vissuto forse al di sopra delle sue possibilità, con un boom drogato dalle costruzioni, anche se le infrastrutture realizzate in questi anni, numerose con aziende nostrane, in Italia ce le sognamo per qualità e rapidità d’esecuzione. Una colata di cemento si staglia all’orizzonte del Bosforo. Dalla residenza presidenziale di Istanbul un diplomatico del cerimoniale mi indica la parte asiatica ancora verde e intatta: «Presto - sottolinea con orgoglio - su quella sponda nasceranno immensi quartieri».
C’è stato un eccesso di debito da parte delle famiglie e delle imprese che si è tradotto in un alto deficit delle partite correnti. La Turchia importa molto di più di quello che esporta, per la crisi dei mercati occidentali e della Cina, un disavanzo che ha condotto come in altre nazioni a un deterioramento della posizione esterna. La bilancia commerciale nei primi undici mesi del 2013 ha ampliato il deficit del 17%, toccando i 90 miliardi di dollari contro i 76,8 del 2012. Le esportazioni (138 miliardi di dollari) sono rimaste invariate mentre le importazioni (228 miliardi) sono aumentate del 5,4 per cento.
Allo stesso tempo la Turchia è stata sedotta e abbandonata dall’"hot money", il denaro bollente degli speculatori attirati in questi anni dalla "caccia al rendimento". Investimenti di breve termine che hanno contribuito a finanziare in larga misura il disavanzo delle partite correnti. Questa dipendenza da capitali speculativi e volatili, molti degli arabi, ha messo a nudo il rischio di improvvisa inversione dei flussi: ed è proprio quanto è accaduto quando la Fed ha lanciato il tapering, con un radicale cambiamento delle politiche monetarie e di investimento.
Non ha del tutto torto Erdogan ad attaccare la lobby dei tassi. Ma ad aggravare la situazione ci ha messo del suo. «La deriva autoritaria del premier - sottolinea Cengiz Candar - ha spaventato dentro e fuori la Turchia». Alcuni sondaggi lo danno in calo di consensi, sotto il 40 per cento: ma se l’Akp terrà le posizioni dopo le municipali, dove rischia ad Ankara e Istanbul, Erdogan potrebbe decidere di concorrere per la presidenza, altrimenti l’alternativa sarà la ricandidadura del più malleabile Abdullah Gul.
Epure fino a oggi questa è stata percepita come una delle economie più dinamiche. «Dopo il crollo del 2001 - dice il vicepremier Alì Babacan che ha accompagnato Gul nella sua visita in Italia - le banche si sono dimostrate resistenti ed elastiche alla crisi del 2008. La fuga di capitali non è giustificata: quest’anno la crescita è stimata al 4%, più alta che in qualunque altro Paese europeo».
La liquidità concessa negli anni scorsi dai mercati è stata un volano formidabile per lo sviluppo industriale e delle infrastrutture: se non vengono commessi altri clamorosi errori politici, in questo contesto le aziende esportatrici potranno beneficiare della svalutazione della lira e contribuire al riequilibrio dei conti correnti. Candar è prudente. «Le previsioni sono difficili ma il modello proposto dall’Akp, un mix di boom economico, conservatorismo religioso e sociale, appalti, grandi lavori e nostalgia ottomana, mi sembra in crisi. E quel modello si è identificato con Erdogan». Sul Bosforo e sui mercati appassisce la lunga stagione verde dell’Islam politico.