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 2014  febbraio 01 Sabato calendario

IN USA, AMANDA È COME UN MARÒ


Per gran parte dell’opinione pubblica americana nell’omicidio di Meredith la vittima è Amanda, e il carnefice la giustizia italiana. Sì, certo, due parole di comprensione per il dolore della famiglia Kercher si aggiungono sempre, ma i tratti della connazionale dipinta durante tutti questi anni come «all-American girl», che equivale al nostro ragazza acqua e sapone, giovane «dagli occhi vivaci» incapace di un simile delitto, hanno dominato i resoconti di gran parte delle testate a stelle e strisce, che quando si tratta dell’Italia spesso rinunciano a capire qualcosa di più complicato del «bunga bunga».
Convinti, in questo caso non da una sponda italiana ma da una sapiente campagna mediatica interna, che la connazionale sia vittima di una orrenda ingiustizia da parte di un sistema giudiziario bizantino, retto da giudici corrotti e sospinto da un’opinione pubblica intrisa di anti-americanismo ideologico, i supporters della studentessa di Seattle hanno costituito ovunque dei comitati di difesa e raccolta fondi che hanno gradualmente trasformato le accuse contro di Amanda in un’accusa al sistema giudiziario italiano, «tortuoso» e infinito.
L’America profonda, faro della libertà, si sente chiamata a impedire a una potenza straniera di condannare un’innocente, per di più americana, a marcire per anni in una cella sotterranea umida e tenebrosa. Tipica l’email che mi arrivò l’anno scorso da una vecchia conoscente del Texas: «Sai niente del pubblico ministero italiano che è deciso a condannare Amanda sulla base delle proprie insinuazioni_ e pare che abbia lui stesso una storia di corruzione alle spalle?»
Molta stampa, incoraggiata anche da figure politiche come la senatrice Maria Cantwell che giudicò la prima condanna «macchiata» da pregiudizi anti-americani, liquida come «condanna per direttissima» l’ammissione di responsabilità di Rudy Guede, che chiama in causa altri colpevoli, e si identifica nel punto di vista della Knox, la quale presenta cose come il memoriale in cui accusava del delitto Patrick Lumumba come frutto delle vessazioni subite dalla polizia.
«Qui la storia si racconta come il dramma di una studentessa americana, intrappolata in un incubo in terra straniera,» conferma Sky online, che prevede un intensificarsi delle apparizioni della Knox sui teleschermi «perché consapevole del fatto che, bene o male, la pubblica opinione potrebbe influenzare i politici che avranno voce in capitolo se l’Italia ne chiede l’estradizione. Vincere i cuori e le menti degli americani non sarà un brutto affare per lei».
In questa ottica si spiegano le lunghe interviste concesse recentemente al britannico Guardian e trasmesse in tv, che inquadrano Amanda in casa a mangiare latte e biscotti assieme all’amica d’infanzia. Mentre, prima, le uniche interviste che aveva concesso erano mirate a promuovere la sua autobiografia, qui Amanda parla a lungo e spiega che il suo caso, quello di subire vessazioni da parte della polizia, è normale, è successo a tanti altri, e «siccome per qualche motivo la gente si interessa a me e vuole sapere cosa mi è successo», allora «se non dicessi qualcosa e lasciassi che queste cose accadano senza che nessuno dia una testimonianza, sarebbe negligenza da parte mia.»
Così la vicenda, che rischia di incrinare ancora di più la nostra malconcia immagine internazionale, potrebbe finire per dipendere da John Kerry, il segretario di Stato. Se dall’Italia arriverà una richiesta di estradizione, poggerà sul trattato in essere dal 1983. Ma i comitati pro-Amanda hanno cominciato a mettere le mani avanti già dal primo momento del suo ritorno a casa: per la giurisprudenza americana un lungo iter giudiziario non è mai visto come garanzia ma come double jeopardy, un inaccettabile doppio rischio, per cui un imputato una volta assolto non si può più processare per lo stesso delitto.