Marcello Bussi e Matteo Radaelli, Milano Finanza 1/2/2014, 1 febbraio 2014
SOMMERSI O SALVATI?
Fuga dagli emergenti? Nemmeno per sogno. Così almeno la pensano gli strategist azionari di Bank of America Merrill Lynch. Mai fare di ogni erba un fascio e quindi bisogna distinguere tra gli emergenti buoni e quelli cattivi. E fra i primi la banca americana mette la Turchia. Secondo lo strategist globale Michael Hartnett «i mercati smettono di farsi prendere dal panico quando le banche centrali cominciano a frasi prendere dal panico».
E la banca centrale turca si è certamente fatta prendere dal panico, visto che alla mezzanotte di martedì 28 gennaio ha alzato i tassi d’interesse dal 7,75% al 12%. La borsa di Istanbul è scesa di brutto negli ultimi tempi e quindi è ora di approfittare dei prezzi da saldo. Il consiglio è quindi quello di puntare sui titoli bancari, visto che il settore è solido. In generale, la raccomandazione di Bank of America Merrill Lynch per il 2014 è di essere sovrappesati sull’azionario turco. E anche la Russia è overweight, visto che i rischi di una caduta del rublo sono limitati. D’altronde la promessa in stile Mario Draghi della governatrice della banca centrale russa, la tartara Elvira Nabiullina, di dare sostegno «illimitato» al rublo non è affatto campata per aria, visto che si basa sulle consistenti riserva in valuta estera accumulate da Mosca. Contrariamente ad altre banche centrali dei Paesi emergenti (Turchia, Brasile, India e Sudafrica), che hanno alzato i tassi d’interesse per frenare la fuga di capitali, quella russa sembra invece intenzionata a mantenerli fermi al 5,50%.
E secondo Liza Ermolenko, economista di Capital Economics, «un rublo più debole migliora la competitività sui mercati internazionali e aumenta le entrate del governo ottenute dalla vendita di petrolio».
Non tutti sono però così ottimisti. Lo dimostra il fatto che in soli sette giorni, dal 22 al 29 gennaio, gli investitori hanno ritirato 9 miliardi di dollari dai fondi specializzati in titoli azionari e bond dei mercati emergenti. Si tratta del deflusso di capitali più forte degli ultimi due anni e mezzo. Secondo Société Générale «la fuga di capitali dai Paesi emergenti è appena cominciata». Per capire che cosa può succedere, bisogna però ricordare come è nata la fuga dagli emergenti. A innescarla, come ampiamente previsto, è stato il tapering, ovvero la riduzione di acquisti di asset da parte della Federal Reserve. Nel giro di un mese sono diminuiti di 20 miliardi di dollari al mese, a 65 miliardi. E le riduzioni, a meno di una non certo auspicabile frenata dell’economia Usa, proseguiranno al ritmo di 10 miliardi per ogni seduta del comitato di politica monetaria della Federal Reserve (Fomc), fino all’azzeramento degli acquisti nel mese di ottobre. La valanga di liquidità immessa dalla Fed era finita anche nei mercati emergenti (si stima che a partire dalla bancarotta di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008 siano arrivati ben 4 mila miliardi di dollari di capitali esteri) e ora, con l’inizio di una politica monetaria un po’ meno accomodante, parte di questo denaro è inevitabilmente destinato a tornare nei Paesi sviluppati (ecco perché le ultime aste di titoli di Stato italiane sono andate bene con tassi d’interesse in calo).
Come al solito la virtù sta nel mezzo, un ritiro massiccio e precipitoso dagli emergenti avrebbe effetti negativi anche su Usa ed Europa. A questo si devono aggiungere le preoccupazioni per il rallentamento dell’economia cinese, dove a gennaio l’indice Pmi sull’attività manifatturiera è sceso sotto quota 50 punti, evidenziando così una contrazione del settore.
Ma il vero timore riguarda la tenuta del sistema bancario ombra cinese. Non a caso la fuga di capitali dagli emergenti ha cominciato a essere consistente quando è girata voce che non sarebbe stato rimborsato un prodotto finanziario di China Credit Trust da 496 milioni di dollari, in scadenza il 31 gennaio. Il default, secondo alcuni osservatori, avrebbe potuto innescare una reazione a catena stile Lehman Brothers facendo crollare il sistema bancario ombra. Ma il 27 gennaio Icbc, la più grande banca cinese che distribuiva il prodotto finanziario, ha trovato il modo di ripagare gli investitori (il comunicato ufficiale è talmente vago che non si capisce come abbia fatto), sventando il pericolo. La minaccia del sistema bancario ombra, che le autorità di Pechino vogliono lentamente smantellare, continua a incombere ed è indipendente dai problemi dei mercati emergenti. Ma per ora è stata accantonata. Un’altra consistente minaccia, questa sì correlata alla salute degli emergenti, è quella del rischio deflazione nei Paesi sviluppati, in particolare in Eurolandia. Per frenare la fuga di capitali e la caduta della valuta nazionale, le banche centrali degli emergenti alzano i tassi d’interesse, mossa che porta a una frenata dell’economia. Non a caso il Fondo Monetario Internazionale si è visto costretto più volte a rivedere al ribasso le proprie stime di crescita per questi Paesi negli ultimi mesi. Per esempio, la stima di crescita del pil brasiliano nel 2014, è stata rivista dal 4,2% in ottobre 2012 al 3,2% a luglio 2013 sino al 2,3% nell’ultimo aggiornamento delle stime di gennaio. Lo stesso è successo per la Cina: dall’8,5% di ottobre 2012 al 7,3% di ottobre 2013, anche se l’ultimo aggiornamento di gennaio ha visto una leggera revisione al rialzo al 7,5%. Ma quest’ultima stima è stata fatta quando non era ancora iniziata la fuga di capitali dagli emergenti. Il rallentamento di questi Paesi porterebbe a un ribasso dei prezzi delle materie prime, cosa che aumenterebbe le pressioni deflazionistiche nel mondo occidentale, già alle prese con una diminuzione del tasso d’inflazione, come dimostra il calo di gennaio dell’indice dei prezzi al consumo in Eurolandia, sceso a sorpresa allo 0,7% su base annua dallo 0,8% di dicembre. Per non parlare del clamoroso -0,7% su base mensile registrato sempre a gennaio in Germania. L’andamento degli aggregati monetari di dicembre, con M3 in calo dall’1,5% tendenziale all’1% è un ulteriore segnale che l’inflazione, se la Bce non prende provvedimenti, potrebbe trasformarsi in deflazione.
Gli emergenti, in particolare la Cina, che ha il potere di controllare il tasso di cambio, potrebbero tornare a fare un forte affidamento sulle esportazioni per stimolare la crescita. Esportazioni a basso costo, quindi, potrebbero entrare sui mercati sviluppati nei prossimi mesi, aumentando le pressioni al ribasso sui prezzi. Allo stesso tempo, il rallentamento dei mercati internazionali, già segnalato dal calo del 50% dell’indice Baltic Dry dei costi del trasporto marittimo e dei noli rispetto ai massimi toccati nel mese di dicembre, andrà a pesare su tutte quelle società che esportano in quei Paesi, come evidenziato dai risultati del quarto trimestre dello scorso anno annunciati nelle ultime settimane. Un problema che riguarda soprattutto l’economia europea, più aperta al mercato internazionale rispetto a quella statunitense. Minori investimenti e minore occupazione ridurrebbero ulteriormente la domanda interna, con un effetto depressivo sui prezzi. Poiché i Paesi emergenti costituiscono ormai il 50% dell’economia globale, le loro tensioni non possono essere considerate dai Paesi sviluppati solo un fatto interno. Al riguardo non è per niente piaciuto che, motivando la decisione di ridurre gli acquisti di asset, la Federal Reserve non abbia fatto cenno agli emergenti, pur essendo consapevole delle conseguenze su di loro. Lo ha sottolineato il governatore della Banca centrale indiana ed ex-capo economista del Fmi, Raghuram Rajan, che ha chiesto un maggiore coordinamento delle banche centrali a livello mondiale. Perché i Paesi emergenti non hanno mai avuto un peso così forte nell’economia globale. I Paesi sviluppati sembrano però non accorgersene. Sperando che non si risveglino dal torpore quando sarà troppo tardi.