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 2014  febbraio 01 Sabato calendario

“GIOVANI CONTRO I PADRI SEGUITE CAMUS”


Abitiamo un teatro nel quale siamo spettatori, prigionieri, attori di una deriva morale nell’assenza di riferimenti. Divampano sconforto e inerzia come su una nave che si frantuma sugli scogli con capitani ubriachi di potere e denaro. Eppure si può reagire, ricostruire. Si ostina a provarci Vittorino Andreoli, psichiatra, autore d’una cinquantina di opere (saggi, narrativa, teatro), una vita a curare la follia, lenire la sofferenza dello spirito, analizzare i percorsi dei più incomprensibili delitti. Con L’educazione (im)possibile, in testa alle classifiche, Andreoli, «pessimista attivo», penetra senza schemi né ricette l’abbandono di quest’epoca massacrata dall’individualismo feroce, di questo mondo «senza padri», e ci accompagna a un recupero di punti fermi, stili di vita, senso della comunione.

Professor Andreoli, la sua pare un’accorata preghiera laica a un’educazione da ritrovare in noi stessi. Possiamo farcela se anche chi dovrebbe porgerla respira un clima tetro di sopravvivenza attraverso furbizia e talento nell’arrangiarsi?
«Dobbiamo ritrovarla, riconoscendo e accettando sé e gli altri. Vivere non è un’astrazione, insegnare a vivere è fare insieme, gestire sentimenti. E’ una prova d’orchestra, in famiglia come in classe come nel gruppo sociale».
Si è spenta l’autorevolezza. Con quali riferimenti, allora?
«Non facciamo confronti con il passato, sono cambiati gli strumenti, basta pensare al digitale. Si deve insegnare a usarlo, non proibirlo: toglierlo ai ragazzi è come togliergli il maglione perché noi non abbiamo freddo. La scuola dell’obbligo per prima, che ancora boccia chi deve andarci. Vogliamo accordare i violini o soltanto tirarceli dietro?»
Scuola e famiglia. Un continuo accusarsi a vicenda.
«E’ insopportabile che si continui a colpevolizzare e colpevolizzarsi. Se anche esistesse la madre perfetta non darebbe garanzie: nella crescita agiscono la scuola, i pari, la società, la tv, i social network. Soltanto tutti insieme possono educare».
La figura simbolo è quella del «padre».
«Il cui ruolo non è dare ordini e castighi. E’ essere esempio, aver coerenza. S’è scoperchiata l’immoralità di Tangentopoli, poi per vent’anni ha dominato la "cultura" dell’immoralità, volontà precisa di diffondere la tendenza a imbrogliare, con soltanto differenze quantitative. Come può un padre del genere dire al figlio di restituire subito i dieci euro al compagno?».
La nuova solitudine incomincia in famiglia?
«L’educazione muore là dove non si può parlare di sentimenti ma di emozioni soltanto. L’emozione è reazione a uno stimolo (come davanti al computer), il sentimento è un legame fra persone basato sulla fedeltà, che ha la stessa radice di fede. Gli alpinisti in cordata, legati sulla parete del Monte Bianco, hanno grande fede l’uno nell’altro. Oggi invece c’è dissipazione di sentimenti, a partire dalla famiglia: i figli non si vedono dentro una storia».
Eterna conclusione: non ci sono più valori.
«I valori portano un’eco che sa di economia. Io parlo di legami fondati su princìpi. Non è difficile trovarli. Vedo gente indaffarata tra mille telefonate e domando: quante a tuo figlio? Nessuna, non avevo tempo, nulla da dirgli. E chiedergli come va? Il legame è la presenza dell’assente».
L’individualismo è ovunque. Come superarlo?
«Passando dal successo dell’Io all’affermazione del Noi. Freud inventò l’Io, che contiene l’inconscio che condiziona l’agire. Dunque: curare l’Io per risolvere i conflitti. Oggi mi batto il petto. Non esiste l’Io, esiste in quanto esiste l’Altro, non c’è attimo in cui siamo Io. Sono stati scoperti i neuroni specchio, che si attivano quando siamo in contatto con l’altro, dunque siamo biologicamente fatti per l’altro».
Lei accusa la politica di calpestare questo rapporto.
«Il Parlamento dovrebbe essere Noi, invece è un gigantesco insieme di sovrastrutture dell’Io. Il delirio dell’Io ha ucciso la democrazia, non viviamo in una democrazia ma in un’autarchia o in un’oligarchia mascherata, dominata da soggetti con la sindrome di Caligola. Guardi un politico con mille volti nello stesso istante. La grandezza di Pirandello, "uno nessuno centomila"...».
I «padri» nella letteratura. Chi altri nei suoi scaffali?
«C’è lo psichiatra Eugène Minkovski con il suo "tempo vissuto". Per l’educazione dei giovani c’è L’uomo in rivolta di Albert Camus. L’uomo in rivolta è quello che dice no, ma soltanto dopo aver valutato la richiesta, incompatibile con i suoi princìpi. Ci sono tre modi di dire no. C’è l’opposizione feroce (faccio l’opposto per partito preso) ed è dipendenza al contrario. C’è la trasgressione, che nasce nel Carnevale di Venezia: dietro la maschera si poteva anche insultare il Doge, ma poi si tornava nei ranghi. E c’è la rivolta: non dire sì andando contro i princìpi».
I princìpi come libertà, non come gabbie.
«Altrimenti è la "libertà di uccidere uno sconosciuto". Pensi a Dostoevskij, ai Fratelli Karamazov. Dostoevskij è un caposaldo, lui stesso malato, di epilessia e di gioco, che si faceva prestare i soldi da un altro grande, Ivan Turgenev, l’autore del fondamentale Padri e figli».
Padri e figli, legame che genera ansia.
«Fu Italo Svevo, tra l’altro traduttore di Freud, il primo a parlare di ansia. La prima cosa è essere se stessi, come si è».
Lei auspica un «umanesimo della fragilità».
«E’ la via per un’educazione. Da una parte c’è l’uomo con i suoi limiti specifici, quelli della carne, dell’impossibilità di rispondere ai quesiti che lo angustiano, dall’altra il mondo, nella duplice veste della natura e delle relazioni umane. Un conto è la debolezza, dove la forza è diminuita, come nella vecchiaia, un conto è la fragilità, legata alle condizioni esistenziali. La fragilità dell’uno è necessaria a quella dell’altro».
Neghiamo il nostro limite definitivo, la morte.
«Grazie alla scienza l’abbiamo sostituita con la malattia. Il potente gira con due medici al seguito, perché la malattia si può vincere, la morte no».
Un quadro desolante, eppure «pessimismo attivo».
«Il pessimismo immobile è fatalismo, come l’ottimismo ad ogni costo. Perciò continuo a darmi da fare. Nella Peste di Camus il medico sa bene qual è la realtà, eppure resta lì, a curare».