Marco Neirotti, La Stampa 1/2/2014, 1 febbraio 2014
“ TRA FIAT E PENNE A SFERA TORINO È DIVENTATA LA NOSTRA NUOVA CASA”
Parlavano una strana lingua. «Che bel matòt», diceva «nonna Gina». Non gli dava del matto, bensì del bel bambino. Simpatici i piemontesi, ma valli a capire. Per gli immigrati al Nord del 1963 la centenaria unità d’Italia non zoppicava soltanto per diffidenza e razzismo, ma pure per la parlata. Calogero Di Fini aveva 10 anni e, con la madre Maria, il fratello Antonio e le sorelle Tanina e Tina, veniva da Cesarò (Messina) a raggiungere a Brandizzo, cintura di Torino, il padre Vito.
Gennaio 2014, scorrendo le immagini dell’archivio La Stampa: «È mia madre!». Una foto alla stazione di Porta Nuova, 23 agosto 1975, uomini con le valigie, tra loro lei (la stessa in immagine in cui si sono riconosciuti padre e figlio Bellusci, la settimana scorsa). Anche Maria in quello scatto non muove alla «conquista» del futuro, l’ha già fatto, sta tornando da una vacanza in Sicilia, a Cesarò, paese arroccato a 1200 metri nel parco dei Nebrodi, 5600 abitanti nel 1951, meno di metà oggi. Là Maria è andata a respirare le origini di una famigliola ora bene integrata, tanto che l’affabile madre del padrone di casa, «il sarto signor Cossetta», è per i bambini «nonna Gina», che raccomanda: «Quando passano i cavalli avvertitemi, si va a raccoglier le buse», che sono in dialetto «le cacche degli animali, buone a far concime».
Anche odori di campagna e suoni di dialetto sono la crescita di Calogero. Vito, il padre, classe 1927, ha lasciato Cesarò nel 1961, trentaquattrenne: «Con altri muratori prese alloggio in via Balbo a Torino. Trovò lavoro nei cantieri dell’autostrada per Milano, il raddoppio avanzava verso Cigliano». Lungo quel percorso cerca casa per la famiglia, in piccoli centri dove più che alla provenienza si guarda agli occhi. E a Brandizzo il sarto Cossetta in quegli occhi ha fiducia.
A fine ‘62 il raddoppio è compiuto. Vito entra in Fiat, affilatura utensili. Alle prime ferie torna al paese: «Si sale tutti». Sua moglie, Maria, ha 52 anni, Calogero 10, le sorelle 8 e 2, il fratello 5. Tra dialetto piemontese, memoria del proprio e l’italiano della scuola, tra la fatica con qualche insegnante e l’apertura di altri, cammina l’integrazione: «Una sera avevo un male diavolo all’addome. Il sarto Cossetta ci portò con la Simca 1000 all’ospedale. Peritonite. Ricordo ancora la macchinetta che andava per le vie come un’auto da corsa».
Si è saliti cercando futuro, nel futuro si cresce: «Papà faceva il triplo lavoro, Fiat e insieme muratore e due orti, dove l’aiutavamo mamma e io. E lei, per guadagnare qualcosa in più, montava fiori di plastica». La famiglia si trasferisce a Settimo Torinese, case Fiat: «Mio padre abita ancora lì. Era città dormitorio, produceva nel positivo e nel negativo, con le tensioni degli Anni ‘70, dalla musica al teatro, dalla protesta al terrorismo». Calogero cerca lavoro alla Fiat, senza fortuna. Entra alla Coragliotto, elettronica e automazioni. Ci resta per dieci anni, poi vince il concorso alla Motorizzazione civile, dove rimane fino alla pensione, lo scorso anno.
Maria è donna forte. Viene da un mondo in cui il ruolo femminile era ingabbiato, «ma non è rimasta cristallizzata in quei confini, ha afferrato nel profondo l’evoluzione culturale e sociale: con le 150 ore alla scuola Gramsci di Settimo s’è presa la licenza media. E come a Brandizzo montava i fiori di plastica, qui, nella città della penna, montava penne a sfera, come si faceva in quasi tutte le case». Al Nord questa moglie e madre non ha cercato la sola dignità di una vita tranquilla, bensì quella di crescita culturale per la famiglia. Ma li lascia presto, muore nel settembre 1974, a 64 anni. Sei anni dopo per casa passa la grande gioia, il matrimonio di Calogero con Daniela, poi la nascita dei figli, Ilaria nell’84, ora sposata, e Marco, nel ‘90, laureando in Scienze motorie e tecnico calcistico.
La coppia si sistema in una serie di palazzine nuove, eleganti, sempre a Settimo, oggi 45 mila abitanti, città cresciuta nel boom industriale ma non soltanto come dormitorio (qui lavorò, dal ‘48 al ’74 Primo Levi alla ditta di vernici Siva, della quale fu direttore generale). Da Settimo Calogero guarda il passato, guarda Cesarò: «Ci tornavamo ogni estate. Avevamo mantenuto la casa ma poi divennero indispensabili lavori di ristrutturazione per i quali non avevamo i mezzi e la vendemmo. Ci siamo tornati, certo, presso parenti, ma senza esagerare, si sa che l’ospite...».
Resta il legame, prosegue il cammino. Attraverso gli affetti, il lavoro, la quotidianità divisa con quella gente che «parlava strano», i ricordi o le canzoni: «I borghi di Gipo Farassino o le benevole prese in giro dei meridionali nei testi di Roberto Balocco, che ci facevano comunque partecipi di questa realtà».
Oggi guardiamo altri migranti: «Non è lo stesso. Noi ci muovevamo in un momento in cui si respiravano crescita e prospettive. Oggi arrivano in un clima cupo. Un immigrato d’allora deve leggere a fondo quelli di oggi e nulla di sé dare per scontato». Dall’ansia per un lavoro al grido: «i cavalli, nonna Gina i cavalli!».