Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa 1/2/2014, 1 febbraio 2014
COSÌ LA POLITICA HA TRADITO LA TERRA
«Che cosa si fa in Italia sul dissesto idrogeologico? Nulla», risponde Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio nazionale dei geologi, «stufo di predicare nel vuoto». Il punto è questo: da anni siamo sommersi di informazioni, dati, mappe, analisi, studi, previsioni e dopo ogni frana alluvione valanga il ministro di turno (ieri è toccato ad Andrea Orlando) ricorda ritualmente che «il dissesto idrogeologico è un’emergenza nazionale». Ma la politica, dal giorno successivo, si occupa davvero dei 5 milioni di italiani che vivono in 6633 Comuni ad alto rischio?
E dire che non molto tempo fa eravamo all’avanguardia in Europa, grazie alla legge sulla difesa del suolo approvata nel 1989 e frutto di una lunga elaborazione dei migliori studiosi seguita alle alluvioni del Polesine (1951) e di Firenze (1966). Il concetto di base era: se riduco artificialmente gli argini di un fiume alla sorgente, i danni si ripercuotono fino alla foce. Dunque non ha senso che ogni Comune agisca da solo. Nascono così le Autorità di bacino ed è una rivoluzione: per la prima volta si affidano funzioni così importanti a organi con confini non amministrativi ma ambientali e si stabilisce che per ogni opera che impatta sul territorio bisogna valutare le conseguenze a monte e a valle. La rivincita della natura sulla burocrazia.
La vita delle Autorità di bacino non è stata facile, e non solo perché, come dice Graziano, «sono diventate centri di potere dove collocare amici degli amici». Per varare i piani, dovevano ottenere quindici pareri di altre istituzioni, poi ridotti a dodici dalla legge Bassanini. Il bilancio l’ha tracciato qualche anno fa il Consiglio nazionale degli ingegneri: «grande frammentazione istituzionale e decisionale... criticità e distorsioni... cronica e drammatica assenza di risorse».
I primi piani sono arrivati dopo dieci anni. A fronte di una stima di 40 miliardi per 11 mila interventi di riassetto del territorio nazionale (un quarto urgenti), si spendono circa 350 milioni l’anno, dieci volte meno della cifra per far fronte alle emergenze. È dimostrato che un euro speso in prevenzione ne fa risparmiare almeno 4 per riparare i danni, ma fa meno business.
Negli ultimi anni i soldi per la prevenzione sono ulteriormente diminuiti: Legambiente calcola 200 milioni l’anno, in grado di coprire solo un terzo degli interventi pianificati. Del resto il ministero dell’Ambiente è stato quello più colpito, prima dai tagli di Tremonti poi dalla spending review di Monti: il budget è crollato da 1,6 miliardi nel 2009 ai 500 milioni attuali (Letta ne ha aggiunti 40, invertendo la rotta). Chimerico, se non controproducente, era risultato nel 2006 l’appello del ministro Altero Matteoli ai capitali privati, con l’utilizzo sciagurato del project financing.
Per la verità, anche quando i soldi ci sono si fa fatica a spenderli. Dei primi soldi stanziati dopo la frana di Sarno, a quindici anni di distanza risulta completata meno della metà dei progetti. Nel 2009, dopo il disastro nel Messinese, Stefania Prestigiacomo aveva racimolato 2 miliardi: in quattro anni solo l’8% è stato speso per avviare il 3% dei progetti, come documentato da Legambiente. Per questo, dopo le alluvioni dello scorso autunno, il ministro Orlando ha sbloccato 1,3 miliardi nella legge di stabilità. Soldi del vecchio piano a cui ha aggiunto 180 milioni in tre anni. Dai Comuni sono arrivate tremila domande, due terzi saranno respinte.
Nel frattempo le Autorità di bacino sono state abolite e sostituite dai Distretti, dai confini molto più ampi ed eterogenei. Quello meridionale spazia dalla Campania alla Calabria, la Liguria fa riferimento a uno con sede a Firenze, quello dell’Arno arriva nelle Marche. La norma è del 2006 ma la transizione non è ancora completata. Alcune Autorità sopravvivono come zombie, altre sono scomparse ma il Distretto non è ancora operativo. E si capisce perché gli ingegneri dipingano «un quadro sconsolante e pessimistico, con apparati depotenziati e norme rese farraginose nell’inerzia dei decisori politici». Sopravvivono tanti piccoli centri di potere a difesa di rivoli di spesa pubblica e le competenze si sovrappongono. Nel caos dilaga il cemento nelle zone a rischio: l’80% degli edifici nelle aree alluvionali ha meno di quarant’anni di vita.
«Se uno muore in un fiume e fossi un magistrato, non saprei a chi mandare l’avviso di garanzia», sospira Graziano. «Gli argini lungo il Po sono trattati in dieci modi diversi, chi è competente per gli affluenti grandi non lo è per quelli piccoli: un pasticcio», rileva Paolo Pileri, docente del Politecnico di Milano che lavora da anni sul governo del territorio e ha promosso VenTo, ciclovia Venezia-Torino lungo il fiume che sarebbe un fiore all’occhiello per l’Expo.
La politica non ama i geologi. Solo un migliaio su 15 mila lavora nelle pubbliche amministrazioni. Qualche decina nei Comuni, primo presidio di protezione civile: non sono obbligatori, tutto è rimesso alla sensibilità dei sindaci (La Spezia ne ha assunto uno dopo l’alluvione delle Cinque Terre del 2011). Alcune Regioni, pur devastate periodicamente come Abruzzo e Liguria, sono prive di un servizio geologico. La Sicilia ce l’ha, ma per occuparsi non di fiumi e frane ma di cave e miniere, tanto che l’ha inserito nell’assessorato all’industria.
L’altra novità della legge dell’89, la relazione geologica sulle opere, non ha avuto miglior sorte. L’ultima dimostrazione è arrivata dalla Sardegna, dove due mesi fa è crollata una strada che aveva creato un effetto diga su un fiume: sbarrando le acque che arrivano da monte, l’allagamento è assicurato. «Nove volte su dieci - dice amaro Graziano - ci interpellano a decisione presa: non per dire se l’opera si può fare, come vuole la legge, ma per mettere chi ha deciso nelle condizioni di farla senza intoppi. Nel 10% dei casi, il geologo se ne lava le mani perché non ha la schiena dritta e sa che se si mette di traverso non riceverà più incarichi».