Valeria Robecco, Il Giornale 1/2/2014, 1 febbraio 2014
CASCHI BLU, UN FALLIMENTO CHE CI COSTA 8 MILIARDI
Dalla tragedia di Srebrenica al genocidio in Ruanda, fino al disastro della Somalia, la storia delle missioni di pace delle Nazioni Unite è costellata di grandi fallimenti, a fronte di qualche sporadico successo come la missione Unifil in Libano. Secondo il nuovo rapporto Onu sul peacekeeping, oggi nel mondoci sono 98.200 caschi blu provenienti da 110 Paesi, di cui 1.118 italiani. Molto spesso però la loro azione si è rivelata fallimentare: se gli anni Novanta hanno segnato un decennio di grandi sconfitte, i primi anni Duemila hanno rappresentato l’impotenza dell’organizzazione internazionale di fronte alla guerra irachena. La bestia nera delle Nazioni Unite resta l’Africa, dove sono stati inviati un numero record di uomini, che raramente si sono rivelati in grado di contrastare o contenere guerre e violenze. «La risposta politica e diplomatica della comunità internazionale alla maggior parte dei conflitti africani è stata lenta e non efficace»,spiega John Prendergast, attivista per i diritti umani da tempo impegnato in Sudan e Sud Sudan con il gruppo Enough Project. «Questo ha fatto sì che aumentasse la pressione sulle forze di pace, gravate dell’impegno di raggiungere obiettivi per i quali i caschi blu sono totalmente impreparati».
Le missioni di peacekeeping costano troppo, e i fondi spesso sono male impiegati. Secondo diversi osservatori, serve una più efficace allocazione delle risorse, anche attraverso un’opera di spending review come quella che il segretario generale dell’ Onu, Ban Ki-moon, si è impegnato a portare avanti. Gli ultimi dati delle Nazioni Unite mostrano che il budget per l’anno fiscale dal 1˚ luglio 2013 al 30 giugno 2014 dedicato al peacekeeping è di 7,83 miliardi di dollari. Tra i primi dieci finanziatori, guidati dagli Stati Uniti con il 28,38% delle risorse, ci sono anche Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna. L’Italia si piazza al settimo posto, con un contributo del 4,45% e un impegno in termini di risorse umane pari a 1.118 unità. Nonostante tale sforzo tuttavia, il nostro Paese continua ad avere un peso politico limitato in seno agli organi decisionali delle Nazioni Unite.
Dal 1948 ad oggi, l’Onu ha attuato oltre 60 missioni, di cui 15 sono ancora operative, mentre sono morte sul campo 3.186 persone, sovente nell’ ambito di un fallimento. Bosnia, Ruanda e Somalia sono sicuramente i tre casi più clamorosi. L’Europa ricorda ancora con orrore la strage di Srebrenica, quando nel luglio 1995 oltre ottomila musulmani bosniaci furono massacrati dalle truppe del serbo Ratko Mladic nella città che era- teoricamente - protetta da centinaia di caschi blu olandesi. Quella che verrà ricordata come la più grande sconfitta delle Nazioni Unite è però la missione Unamir, in Ruanda. I peacekeeper, inviati nel Paese africano per placare le tensioni etniche tra gli Hutu e la minoranza Tutsi, nel 1994 hanno assistito impotenti al genocidio di oltre un milione di persone. E ancora la Somalia: la missione Unosom scattò nell’aprile del 1992, per stabilizzare l’anarchia nello Stato africano. Dopo il disastro della battaglia di Mogadiscio, gli americani si ritirano nei primi mesi del 1994, seguiti dai caschi blu.
Tra le forze di pace si registra anche qualche sporadico successo, come quello della missione Unifil, in Libano, dove i peacekeeper sono riusciti a porre fine alle ostilità sfociate nella guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele. E oggi, da un lato tentano di controllare le spinte degli Hezbollah, e dall’ altro sono impegnati nel difficile sminamento della fascia di confine con Israele.
Da segnalare anche l’aumento dei caschi rosa, ovvero della componente femminile, tra i peacekeeper. Secondo un dossier del Dpko, la divisione del Palazzo di Vetro dedicata alle operazioni di pace, ci sono 1.327 donne dispiegate in Darfur, 529 a Haiti, 548 in Libano, 527 in Liberia, per un totale di quasi 5.300, con una percentuale per l’Italia che si aggira intorno al 10%.