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 2014  febbraio 01 Sabato calendario

LONDRA, LA CITTÀ-STATO CHE TRAINA L’ECONOMIA


LONDRA. Dal nostro corrispondente
«Ormai anche Dalston sembra Knightsbridge», ha scritto di recente il Guardian. Notting Hill? Bellissima, ma vecchia quanto il profilo non più adolescenziale del protagonista del film, Hugh Grant, uomo di mezza età inoltrata. Primrose hill? Un’altra splendida collinetta che di pionieristico non ha più niente, se mai, davvero, lo ha avuto. Shoreditch? Affascinante, schiacciata su Brick lane, ma ingrigita dal tempo che passa anche per la Silicon valley britannica.
No, Dalston non è ancora Knightsbridge, Stoke Newington non è Chelsea, Hackney non è Kensington, ma gli anni scorrono e le new entry si fanno old con straordinaria velocità, mentre s’allunga la coda dei prossimi. Un po’ più in là, sempre più in là, di quel north east che lotta con il south west per farsi nuova frontiera metropolitana.
A Londra non c’è ricambio, ma aggiunta. Costante espansione di una città che da secoli ha scelto l’orizzontale invece del verticale. E allargandosi conquista pezzi di un Regno che si interroga sul costo di tanto sgomitare; la proiezione urbanistica è metafora di un fenomeno assai più vasto, radicato al difficile rapporto fra la capitale e il resto del Pasese.
Il pianeta Londra è bene o è male per la Gran Bretagna che si scopre locomotiva d’Europa con un pil cresciuto del 2% nel 2013, una disoccupazione in caduta libera, un ottimismo che non ha precedenti dal 2007? Il dibattito spacca politici ed economisti in una dinamica ben riassunta dalle parole di Tony Travers, della London School of Economics. «È sempre più la stella oscura dell’economia. Senza pietà succhia energie, risorse, talenti. Nessuno sa più come controllarla». Parole che seguono quelle, pronunciate in dicembre, da Vince Cable, ministro per il Business del partito Liberaldemocratico. «Londra è diventata un’idrovora che toglie la vita al resto del Paese». Immagine ribaltata dal sindaco Tory, Boris Johnson, pronto ad affidarsi alla fisiologia animale. «La capitale è un gigantesco celenterato che assorbe nel suo ventre talenti dal mondo e, gentilmente, espelle attività economica e dinamismo nel Paese». La scherma potrebbe proseguire all’infinito e all’interrogativo originario - fino a quanto sia un bene e dove cominci ad essere un male lo strapotere di una metropoli - continua a non esserci risposta certa.
La radiografia di Londra è stata tracciata nei giorni scorsi da un rapporto di Centre for Cities che, nell’outlook 2014, conferma il sospetto: una realtà che veleggia per conto proprio con numeri e dinamiche del tutto slegate dal resto del Paese. Una Città-Stato se è vero che l’80 % dei posti di lavoro creati dal settore privato nel Regno, fra il 2010 e il 2012, sono nati a Londra. Non solo. Per ogni singolo "job" sbocciato attorno a Westminster se ne sono persi due a Bradford, Blackpool e Glasgow dove neppure si avverte la ripresa economica.
Una linea profonda divide le province, dove la crisi non è mai finita, dalla capitale, dove la crisi non è mai cominciata, se è vero che la produzione economica dal 2007 al 2012, ovvero nel punto più basso della crisi, è cresciuta del 15,4%, il doppio della media britannica. Oggi Londra produce da sola un quarto - altre fonti si spingono a indicare il 30% - del pil nazionale. Fra i motivi la capacità di attrazione di una città che richiama a sé il 60% dei giovani britannici (quelli che lasciano la città natale) fra i 22 e i 30 anni. Molti torneranno se non altro perché la capitale è il più grande datore di lavoro delle altre città. A York, per esempio, un’occupazione privata su cinque fa capo a una società che ha sede nella capitale. Lo stesso a Crawley, Milton Keynes. Secondo Ernest & Young il 45% dei progetti finanziati da investimenti esteri diretti finisce sulle rive del Tamigi. Complici i Giochi Olimpici del 2012? Certamente, eppure c’è sempre un evento prossimo venturo o un’infrastruttura in costruzione capace di attrarre denaro globale.
La casa è la cartina al tornasole di un gap che scava in profondità. I valori degli immobili nel 2012 sono cresciuti a Londra il doppio della media britannica: l’allarme per i timori di una nuova bolla immobiliare non vanno esagerati. O meglio non vanno estesi a tutto il Paese, ma diretti solo sulla capitale. La dinamica del real estate è unica essendo eterodiretta, da denari di provenienza diversa. Erano petrodollari arabi negli anni Settanta-Ottanta, sono stati petrorubli russi fino a ieri, ora tocca alle monete cinesi, brasiliane, indonesiane e via con Brics, Next Eleven e tutti coloro che continuano a considerare Londra - non Manchester, non Liverpool - porto sicuro dalla crisi. Fenomeno, quello immobiliare, che genera un indotto a cascata. Se per vedere un aereo basta alzare gli occhi, in qualsiasi istante, verso il cielo di Londra, per vedere un camion di traslochi, basta tenerli su una strada qualsiasi: c’è sempre un mezzo che carica, scarica o si muove in attesa di caricare o scaricare. Le società di traslochi registrate nella capitale sono 143. L’elenco non tiene conto dei dilettanti del settore, numerosi quanto i professionisti.
Tanto, ma non tutto, è generato nel Miglio Quadrato. Ha ragione City-Uk (lobbisti, a tutela di banking e dintorni) a precisare che servizi finanziari e indotto hanno generato un surplus della bilancia commerciale di 61 miliardi di sterline nel 2013, ben oltre gli altri settori combinati. Nettare per un Paese debole sul cotè esportazioni. Eppure business come digital media e servizi legali made in London, sono eccellenze mondiali e garantiscono una differenziazione economica rispetto all’immagine del "solito banchiere" che si aggira per Lombard street.
Londra punta oltre la City e anche per questo la crisi è stata scavallata in velocità. E soprattutto per questo, Boris Johnson, chiede autonomia allo Stato più centralizzato d’Europa. Le domande per trattenere localmente la tassa sulle transazioni immobiliari e per estendere i poteri d’intervento in linea con il ruolo esercitato dalla capitale, restano per ora inascoltate.
Più potere e più denari implicano, infatti, una risposta positiva all’interrogativo irrisolto. Il bene di Londra, cioè, è bene per il Paese, come vorrebbe la plastica immagina del celenterato caro a Johnson che sparge i frutti di sé stesso sul Regno. Centre for Cities ha sposato questa tesi sulla base di una semplice considerazione: se non ci fosse Londra tanta ricchezza che attrae finirebbe all’estero. No, non a Manchester, non a Liverpool, probabilmente. E con tutto il dovuto rispetto.