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 2014  febbraio 01 Sabato calendario

COSÌ IL 25% DELL’INDUSTRIA È DIVENTATO DESERTO


La recessione sta plasmando – in negativo – il paesaggio produttivo italiano. Non c’è una politica industriale in grado di contrastare la desertificazione produttiva. L’indice della produzione industriale, dall’inizio della crisi, è sceso del 25%. E sta diventando un fenomeno strutturale la perdita di un quinto della nostra capacità produttiva. Rispetto alla Germania e alla Francia – dove le policy sono organiche e di lungo periodo, non casuali ed effimere – l’Italia ha perso dal 2008 venti punti di fatturato nazionale.
Paolo Bricco

I l profilo dell’industria italiana è stato rimodellato dall’energia violenta della recessione. La crisi di interi settori (il bianco, per esempio) - acuita dall’esodo delle multinazionali (Electrolux, appunto) - rischia di produrre effetti profondi. E non ci sono politiche industriali in grado di contrastare il rischio della deindustrializzazione. «In tutte le principali economie avanzate - sottolineava ieri una nota del Centro Studi di Confindustria - esistono piani strategici, di medio-lungo periodo, a supporto dell’industria, che passano anche attraverso l’individuazione selettiva di aree di intervento ritenute chiave per la crescita». E, poi, aggiungeva: «In Italia la politica industriale è tuttora assente».
La manifattura conserva la sua centralità strategica - economica, occupazionale e identitaria - per il Paese, ma è messa alla prova la capacità di evoluzione futura del nostro tessuto produttivo. Un’elaborazione compiuta per Il Sole-24 Ore dall’ufficio studi di Mediobanca mostra la coesistenza di reazioni diverse alla crisi. Posto a 100 l’indice del fatturato nel 2003, l’intera manifattura toccava quota 130,4 punti nel 2008: le grandi imprese arrivavano a 137,1 punti, le medio-grandi a 132,2 punti, le medie a 139,2 punti. Da allora - a fronte del calo della manifattura nel suo complesso (122,8 punti nel 2012, con una previsione a 118,2 punti nel 2013) - si è registrato il crollo dei grandi gruppi (118,1 punti nel 2012), la frenata delle imprese medio-grandi (123,3 punti nel 2012) e la tenuta delle aziende medie (136,9 punti nel 2012, con una stima per il 2013 di 137, a un soffio dal risultato del 2008).
L’analisi realizzata da Mediobanca evidenzia anche una precisa strategia: le imprese italiane hanno scelto di conservare attività (ricavi), anche a scapito della redditività (margini). Non a caso se - fatto 100 il numero indice nel 2003 - il valore aggiunto della manifattura nel 2008 valeva 115,8 punti, nel 2012 è sceso a 105,8 punti. I grandi gruppi sono passati da 115,9 a 97,1. I medio-grandi da 113,6 a 103,2. Le medie imprese da 125,9 a 121. In tutti i casi il calo ha avuto una proporzione maggiore rispetto a quello dei ricavi.
La crisi si sta dunque rivelando un laboratorio che divide gli elementi dell’industria italiana, separa le imprese efficienti da quelli inefficienti, mostra i punti di frattura. Il rimodellamento coatto del sistema produttivo avviene in un Paese esausto in molte (se non tutte) le sue componenti. Il lavoro della Banca d’Italia "Il sistema industriale fra globalizzazione e crisi", pubblicato fra gli occasional papers delle "Questioni di Economia e Finanza", ricorda come rispetto al "picco" del 2007 il Pil italiano sia sceso di circa nove punti. A questo va naturalmente aggiunto un problema di stabilità di lungo periodo della nostra finanza pubblica, con tutto il suo potenziale di effetti (negativi o positivi) sulla definizione del frame creditizio e infrastrutturale in cui operano le imprese. Via Nazionale calcola che l’industria valga ancora un quinto del valore aggiunto nazionale. Ma, soprattutto, stima che il 70% delle spese in R&S del settore privato provenga da essa, a cui è riferibile anche l’80% dell’export, oltre che una funzione guida dei servizi: al terziario industriale è imputabile il 40% dell’export industriale.
Nella non semplice decrittazione di quanto la recessione innescatasi nel 2008 abbia modificato la natura del nostro capitalismo produttivo, una cosa è certa: ha evidenziato l’insostenibilità - di lungo periodo - della schizofrenia fra un export che - al di là della sua qualità e della maggiore o minore penetrazione fuori dall’Unione europea - esiste ed è bello in carne e un mercato interno che, invece, assomiglia a un corpo sempre più magro, quasi a rasentare il rischio di una patologia anoressizzante. Fissando a 100 l’indice generale del fatturato totale del sistema industriale italiano nel 2010, l’Istat ha rilevato che gli indici di quelli nazionali e esteri non erano nel 2008 troppo dissimili, trovandosi intorno a 110 e a 113 punti. Il problema è quello che è successo dopo: l’indice del fatturato nazionale è arrivato a lambire nel 2012 quota 95 punti, mentre quello estero superava di slancio di nuovo i 110.
Ci sono i bilanci. E c’è l’elemento psicologico: forza o depressione dell’anima, degli uomini e dei Paesi. Anche in questo caso è la manifattura a trainare: secondo Nomisma l’indice della fiducia antecrisi - fissato a 100 al 2005 - a metà del 2009 è precipitato sia per l’industria che per i servizi a 70 punti. Per i servizi, oggi, è ancora fermo a quel livello. Per la manifattura, naturalmente export-oriented, ora è tornato a quota 95. Dunque, il problema strutturale è il mercato interno.
L’intima connessione con le tare del nostro Sistema Paese è mostrata dalle differenti performance rispetto ai concorrenti europei. Secondo una elaborazione compiuta per Il Sole-24 Ore dal Ceris-Cnr su dati Eurostat, posto a 100 il fatturato nazionale del 2010, due anni prima l’Italia era a 119, la Germania a 118 e la Francia a 108. Ora la Germania e la Francia si sono riconsolidate intorno a quota 110, mentre l’Italia è inchiodata a 90 punti. Dietro a ciò, ci sono anche le policy. «In Germania, dove da anni sono attivi enti pubblici che facilitano la diffusione e commercializzazione delle innovazioni - ricordava ieri una nota del Centro Studi Confindutria - è stata da poco finanziata la nascita di 15 distretti tecnologici. In Francia il nuovo piano di rilancio del manifatturiero prevede 24 piani industriali e si avvale del ruolo strategico affidato alla Banca Pubblica degli Investimenti».
La natura da Giano Bifronte dell’economia italiana è naturalmente rivelata dai cento miliardi di surplus manifatturiero con l’estero. Questo dato, che non smette di sorprendere quanti non colgono la naturale capacità metamorfica di un Paese abituato fin dal Medioevo a «produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo» (copyright Carlo Cipolla), va però condizionato al filtro di una recessione che ha accelerato i cambi di paradigma imposti negli ultimi quindici anni dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione. In particolare, la rimodulazione delle catene globali del valore pone la questione del livello in cui le aziende riescono a collocarsi in esse. In qualche maniera, la crisi iniziata nel 2008 evidenzia la condizione sospesa fra vitalità e fallimento per le piccole imprese delle economie di territorio, sottolinea la forza propulsiva del Quarto Capitalismo delle medie imprese ultrainternazionalizzate, sancisce la minorità dei grandi gruppi industriali italiani. Nelle attuali catene globali del valore, i grandi gruppi hanno una funzione egemonica: orientano le scelte, trattengono le quote maggiori di valore aggiunto, selezionano la sub-fornitura. Peccato che, ormai, con una Telecom Italia sfibrata, una Finmeccanica che ha avuto nel 2013 il suo annus horribilis e un’Ilva di cui nessuno conosce ancora il destino, sia ormai alla conclusione il declino del paradigma della grande impresa italiana, una deriva innescatasi all’inizio degli anni Novanta.
Mentre la rimodellazione forzata da recessione si innesta su fenomeni di lungo periodo, liberi di produrre i loro effetti grazie all’assenza di politiche industriali non effimere, due cose appaiono inquietanti. La prima è la comparazione effettuata dal Centro Europa Ricerche sugli esiti di tre recessioni: appunto 2008, quindi 1992 e infine 1974: l’indice della produzione industriale, posto a 100 dell’ultimo anno pre-crisi, a sei anni dall’inizio di quest’ultima recessione è fermo poco sopra i 75 punti; negli anni Novanta, nello stesso numero di esercizi, era salito a 105 punti; negli anni Settanta, quasi a 120. La seconda cosa inquietante è il rischio - paventato da Nomisma - che si trasformi in un fenomeno strutturale la perdita di un quinto della capacità produttiva italiana, provocata da una crisi che sta modificando in misura radicale il nostro paesaggio industriale.