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 2014  gennaio 31 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA STRATEGIA DEI GRILLINI


REPUBBLICA.IT
ROMA - Angelino Alfano rompe gli indugi e si rivolge apertamente a Matteo Renzi, spronandolo a partecipare attivamente all’esecutivo con suoi ministri, pena la crisi. "Noi crediamo che con un contratto di governo si possano realizzare un bel pò di cose positive per il 2014 e per farlo occorre che Renzi sia protagonista della nuova fase del governo - dice il vicepremier a Radio Uno- se lui non lo è non crediamo si possa andare avanti".

Intanto tra polemiche, accordi contrastati, ingiurie, insulti e spintoni, l’Italicum approda nell’aula di Montecitorio per essere sottoposto all’esame della Camera. Poi supera lo scoglio delle pregiudiziali di costituzionalità e prosegue il proprio iter, sicuramente non facile, verso l’approvazione: il prossimo appuntamento è stato fissato per l’11 febbraio. Ma nonostante la maggioranza alla fine abbia mostrato di aver tenuto, nel voto segreto sulle pregiudiziali di costituzionalità spuntano poco più di 20 franchi tiratori. Già, perché tabulati alla mano, sono tra i 21 e i 30 i deputati che, nel segreto dell’urna, hanno votato per bocciare la legge elettorale, in dissenso rispetto al proprio gruppo. Matteo Renzi, segretario del Pd, ha subito commentato: "Bene, abbiamo tenuto, ora avanti, si fa".

La Lega per protesta contro la maggioranza fa sapere di non voler partecipare alle votazioni di oggi. La novità la rende nota il deputato Giancarlo Giorgetti in solidarietà con Cristian Invernizzi (entrambi del Carroccio), "cui ieri è stato impedito di votare in commissione". Per stigmatizzare quanto accaduto, la Lega dice: "Non siamo in Corea del Nord". In risposta, la presidente della Camera, Laura Boldrini, dice che "del tema si occuperà l’ufficio di presidenza". Proprio stamani, infatti, la Lega aveva chiesto che la presidenza della Camera facesse ripetere il voto di ieri in commissione sul mandato al relatore sulla legge elettorale. Alla richiesta, presentata da Massimiliano Fedriga del Carroccio, si erano associati anche M5S, Fdi e Sel. Contrario alla ripetizione il Pd.

La Boldrini respinge la richiesta, non formalizzata, di far tornare in commissione la legge elettorale per la bagarre di ieri durante la votazione: "Il presidente della commissione, Francesco Paolo Sisto, ha attestato la regolarità del voto - è stata la spiegazione -. Se c’è una proposta di rinvio in commissione fatela e la mettiamo ai voti", ha detto rivolgendosi ai gruppi di opposizione che avevano sollevato la questione della regolarità. "Quanto alla corretteza, per me fa fede quanto ha detto il presidente. Lui ha attestato la presenza dei deputati e la regolarità del voto", ha insistito.

In netto dissenso con la bocciatura della richiesta, i deputati M5S abbandonano l’aula: "Non saremo mai complici di questo ennesimo scempio", dice Giuseppe Brescia. Dal canto suo, la presidente Boldrini si è detta "dispiaciuta". Ad abbandonare l’aula, poco dopo, anche Fratelli d’Italia.

Contestualmente, con un’unica votazione a scrutinio segreto, l’aula respinge le pregiudiziali di costituzionalità presentate dall’opposizione (e subito dopo respinge pure, con voto palese, la pregiudiziale di merito presentata dai grillini). Ciò significa che nel primo voto d’aula la maggioranza ha comunque ’tenuto’ sull’accordo Pd-Fi e sottoscritto in commissione anche da Ncd: lo spettro dei 101 franchi tiratori che lo scorso anno fecero implodere la candidatura di Romano Prodi al Colle non ha mai smesso di generare tensione tra i democratici. Le pregiudiziali di Sel-M5S-FdI sono state bocciate a voto segreto con 351 no, 154 sì e 5 astensioni. Nel voto seguente, palese, la pregiudiziale di merito del M5S è stata respinta con 377 no, 120 sì e 14 astensioni.

Il partito di Angelino Alfano comunque, attraverso il capogruppo a Montecitorio, Enrico Costa, aveva chiesto che il testo non fosse "blindato". Le pregiudiziali delle opposizioni sono state votate anche dal Centro democratico, alleato con il Pd. Scelta civica, pur non votando i documenti delle opposizioni, ha mosso alcuni rilievi all’Italicum. Ma Renato balduzzi, in dissenso dal gruppo Sc, si è astenuto. Per assistere al primo voto in aula sulla legge elettorale c’era il governo al gran completo, tranne il premier Enrico Letta. Tra i ministri, da segnalare la presenza di Alfano.

A seguire, si è riunita la conferenza dei capigruppo, la quale ha deciso che l’esame della riforma della legge elettorale riprenderà in aula l’11 febbraio. Il capogruppo del Pd, Roberto Speranza, aveva chiesto che la discussione ripartisse già martedì prossimo 4 febbraio, ma ha trovato nella capigruppo soltanto la sponda di Forza Italia, con Renato Brunetta. Mancando quindi la maggioranza qualificata, la decisione è stata rimessa - a quanto si è appreso - alla presidente Boldrini che ha fissato la ripresa per la seconda settimana di febbraio. Boldrini ha poi stabilito che il contingentamento dei tempi non sia così stringente: 22 le ore fissate per il dibattito e la votazione. E’ stato inoltre triplicato il numero degli emendamenti che i gruppi potranno segnalare e che dovranno essere depositati entro 24 ore prima dell’inizio dell’esame, dunque il 10 febbraio.

Ieri, infatti, la commissione Affari costituzionali della Camera ha approvato il testo della nuova legge elettorale che spazzerà via il Porcellum. Ma è un testo ’vecchio’ quello che approda in aula, frutto dell’accordo iniziale tra Renzi e Silvio Berlusconi, senza le modifiche concordate mercoledì tra i due. Quelle modifiche, infatti, saranno discusse e votate direttamente in aula. Il primo obiettivo. comunque sia, è raggiunto: Renzi, segretario del Pd, porta a casa la tempistica promessa (entro fine gennaio il testo a Montecitorio). E subito rilancia: da qui al 15 febbraio presenterà un "testo condiviso per superare il Senato e chiarire i poteri delle Regioni", ovvero le riforme costituzionali che dovranno procedere in parallelo con la riforma del voto.

REPUBBLICA.IT SU GRILLO
ROMA - "Sono sereno per quel che riguarda la mia situazione personale, preoccupato per quello che riguarda il Parlamento". Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parla degli ultimi due, infuocati, giorni di Montecitorio: l’ostruzionismo sul decreto Imu-Bankitalia, la bagarre in Aula del Movimento 5 Stelle, la richiesta di impeachment nei suoi confronti. Lo fa lasciando la sede del Consiglio di Stato dove ha presenziato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, lanciando un appello per il ritorno alla serenità istituzionale.

E anche il presidente del Consiglio esprime, a nome di tutto il Cdm, piena solidarietà al Capo dello Stato. Respinge con forza l’impeachment e attacca il M5s: "Ha preso una strada antidemocratica, la democrazia si basa sul rispetto delle regole. Bisogna reagire con nettezza a queste provocazioni - dice Enrico Letta- Il nostro Paese deve difendere le sue istituzioni".
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Ma i duri giudizi del Capo dello Stato sull’escalation grillina a Montecitorio, che seguono di poche ore quelli del presidente della Camera Boldrini, non hanno placato gli animi. Con i deputati Cinquestelle pronti ad alzare ancora i toni. "Leggo tanta gente nervosa per l’intervista al Tg1 della Boldrini - posta su Facebook Manlio di Stefano - ma vi prego di non sprecare tempo con queste cose. Una donna senza dignità che parla ad un Tg senza giornalisti non merita considerazione. Sono zombie che tentano di tornare in vita. Andiamo oltre". Il deputato Alessio Villarosa, invece, sostiene che "durante il fascismo si facevano queste cose... I nostri partigiani ne hanno fatte molte ma molte di più rispetto a quello che stiamo facendo noi". Una frase che manda su tutte le furie Rosa Calipari (Pd): "Lasciate stare i partigiani - dice - proprio questa mattina ho dovuto difendere il finanziamento alle associazioni combattentistiche partigiane definite dai 5s ’anacronistiche’, tanto che non hanno votato il provvedimento". Mentre il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, conferma: "La linea del Movimento 5 Stelle resta la stessa delle ultime settimane e la decidiamo nei gruppi parlamentari".

Videoblob / Di Stefano: il turpiclone

Il segretario Pd, Matteo Renzi, in un’intervista al quotidiano La Stampa parla di "squadrismo" mentre il capogruppo di Ncd alla Camera, Maurizio Sacconi, propone di introdurre assieme alle altre forze di maggioranza "una conventio ad excludendum nei confronti del movimento di Grillo, dal punto di vista delle politiche pubbliche, in modo da dare coerenza al proprio percorso comune".

Grillini che, però, nonostante tutto insistono con la loro protesta e lanciano una nuova iniziativa: "Da oggi tutti i parlamentari M5S indossano un fazzoletto bianco al polso, fino al ripristino della democrazia", ad annunciarlo è il gruppo dei Cinquestelle di Montecitorio. Mentre il loro leader, Beppe Grillo, pubblica sul suo blog un post per lanciare l’hashtag Twitter #Boldriniacasa e chiedere, attraverso un sondaggio, le dimissioni del presidente della Camera: "Ha tradito il suo mandato. Giovedì 29 gennaio è morta la democrazia", dice. Grillo che ha deciso d’incontrare quelli che lui chiama ’guerrieri’, in una sala dell’hotel dove ha pernottato e non, come inizialmente previsto, alla Camera o al Senato: "Sono venuto a manifestarvi la mia solidarietà. Non sono abituati all’esistenza di un’opposizione - il suo commento - fategli una carezza (agli altri partiti) e in silenzio fategli capire che tanto sono morti".
Anche se, per sua stessa ammissione, l’obiettivo è quello di rimanere in Parlamento e per farlo "bisogna usare l’arma della dolcezza. Va bene lo scontro ma dobbiamo restare in Parlamento, non dobbiamo esagerare".

Videoblob / L’aula come un ring

Dura condanna al comportamento dei ’grillini’ arriva, però, anche della Conferenza episcopale italiana che definisce quanto accaduto nell’Aula di Montecitorio "scandaloso e mortificante per l’Italia e tutti noi". Intanto il deputato Massimo De Rosa, denunciato dalla ’democratica’ Alessandra Moretti per aver rivolto a un gruppo di parlamentari donne insulti sessiste, è ufficialmente indagato dalla procura di Roma per ingiurie. De Rosa che, ancora stamattina, confermava il senso delle sue parole, difendendosi: "Ho detto quello che pensano tutti gli italiani".

PEZZO DI REPUBBLICA DEL 30/1
TOMMASO CIRIACO
ROMA
— Prendono la rincorsa dalla sommità dell’Aula. Decine di deputati grillini, scatenati, puntano ai banchi della Presidenza. Travolgono tutto, sfondano la diga improvvisata dai commessi della Camera. Spinte che forzano il blocco, duelli corpo a corpo, urla sguaiate. Dal gruppo di Fratelli d’Italia scagliano monetine di cioccolata, giudicando il diversivo utile ad accompagnare l’arrembaggio. “Fascisti, fascisti”, scandiscono increduli gli altri parlamentari mentre Laura Boldrini è costretta a chiudere la seduta. È solo l’inizio di un’escalation pensata, pianificata e portata avanti dal Movimento cinque stelle. Culminata, poco dopo le 21, con l’occupazione delle commissioni parlamentari impegnate in alcune sedute serali.
La bomba a orologeria fa tictac fin dal mattino. A Montecitorio tutti attendono l’ora x, i pentastellati fanno sapere di
mirare al caos parlamentare. Vogliono reagire alla “tagliola” a cui intende ricorrere la Presidenza per consentire l’approvazione del decreto Imu-Bankitalia. Senza il brusco stop a disposizione della Boldrini, d’altra parte, il decreto è destinato a decadere, costringendo gli italiani a pagare la seconda rata dell’Imu 2013.
La battaglia parlamentare prosegue da quattro giorni, la tensione è palbabile. I parlamentari del Movimento cinque stelle sono pronti a tutto pur di evitare la rivalutazione delle quote di Bankitalia in mano alle banche. È da lì che parte la loro protesta. «È la prima volta che si usa la tagliola», denunciano. Nel pomeriggio il passaparola assume contorni preoccupanti: «Al momento della verità - sussurrano i deputati della maggioranza - i grillini bloccheranno l’ingresso dell’Aula». Non si spingono a tanto, ma lo show down è rimandato solo di alcuni minuti. Mentre è in corso il voto finale sul provvedimento approvato con 236 voti a favore e 29 contrari - i pentastellati si precipitano ad occupare i banchi del governo. Tra i più agitati si distingue l’ex capogruppo Alessio Villarosa: quasi salta il cordone dei commessi, sceglie il posto normalmente riservato al premier e inizia a battere il pugno.
Nel copione c’è spazio anche per i bavagli bianchi con cui i
grillini coprono parte del volto. È metafora dell’opposizione silenziata, ma l’effetto è vagamente inquietante. Fuori dall’Aula, intanto, senatori del M5S in “trasferta” incitano i giovani colleghi alla pugna. Dentro, invece, si moltiplicano i cartelli con su scritto ’corrotti’. Alcuni deputati alzano pacificamente le mani in aria, ma poco più in là i colleghi di partito più esuberanti
si incuneano per forzare lo scudo umano improvvisato dai commessi. Fischi e grida trasformano l’Aula in una bolgia, i parlamentari del centrosinistra intonano ’Bella ciao’.
Nella baraonda si distingue per foga anche il deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli. Si arrampica sui banchi del governo, sventola il tricolore. I commessi provano a sottrarglielo
con la forza. Inutilmente, perché lui resiste e non molla la presa. Al suo fianco un altro parlamentare - inquadrato dalle telecamere - si sbraccia minacciosamente verso Boldrini.
L’incidente, annunciato, si manifesta. La grillina Loredana Lupo esce dall’Aula in lacrime. Accusa: «Il deputato questore Stefano Dambruoso mi ha dato uno schiaffo, mi ha fatto anche
volare una lentina». Mostra una guancia rossa, trema di rabbia. L’esponente di Scelta civica, però, nega sdegnato. Giura di essersi solo schierato in difesa della Boldrini. Sullo sfondo, alcuni commessi di Montecitorio ricorrono alle cure dell’infermeria. Uno ha un braccio dolorante, un altro sostiene di aver ricevuto un colpo al volto.
Boldrini, costretta a chiudere
in fretta la seduta, esce dall’Aula accompagnata dagli assistenti parlamentari. La invitano a scegliere una “via di fuga” discreta, lei si oppone: «Mica devo vergognarmi. E ho fatto il possibile per evitare tutto questo». Appena gli animi si placano, però, i grillini lanciano il secondo tempo dell’offensiva. Prima ’invadono’ la commissione Giustizia - chiedendo di far partecipare
alla riunione anche i deputati che non fanno parte dell’organismo - provocandone la sospensione per motivi di sicurezza. Poi si dirigono verso la commissione Affari costituzionali, impegnata nell’esame della legge elettorale. Si siedono sui banchi della presidenza, boicottando i lavori.
Il manifesto politico dell’occupazione
è firmato a tarda sera
da Riccardo Nuti: «Oggi sono stati stracciati da Boldrini, con la complicità di governo e partiti, il regolamento e la Costituzione che non esistono più. È morta la democrazia e non c’è più motivo di proseguire con i lavori parlamentari - annuncia -Blocchiamo il Parlamento».
L’obiettivo delle truppe di Beppe Grillo è far salire la tensione oltre il livello di guardia.
Un assaggio si è avuto due giorni fa, con l’ormai noto “boia” dedicato da Giorgio Sorial al Presidente della Repubblica. Dopo la denuncia di una deputata del Pd, la Procura ha messo sotto indagine il parlamentare per vilipendio. Non paghi, i pentastellati sono pronti a presentare oggi stesso la richiesta di impeachment a Giorgio Napolitano, partendo dal caso delle
telefonate - ormai distrutte - tra il Capo dello Stato e Nicola Mancino. Come se non bastasse, il Movimento ha voglia di lanciare l’offensiva anche fuori dalle Camere. Così, almeno, teorizza il vicepresidente di Montecitorio Luigi Di Maio: «Quando si sopprimono i diritti dell’opposizione, il conflitto si trasferisce fuori dal Parlamento».

PEZZO DI RRPUBBLICA DEL 31 GENNAIO 2014
SEBASTIANO MESSINA
ELO conferma di prima mattina la dichiarazione del grillino Giuseppe Brescia: «Ora l’opposizione deve andare oltre il regolamento». Si comincia presto, perché il piano dei grillini non è un segreto. Lo annuncia su Facebook Giorgio Sorial, il deputato che ha dato del «boia» a Napolitano: «Ora siamo in commissione Affari costituzionali per bloccare la seduta sull’Italicum. Noi non li molliamo!». Non sono ancora le dieci e manca più di mezz’ora all’inizio della seduta, ma il presidente della commissione, Francesco Paolo Sisto, ha già preso le sue contromisure. Prevedendo l’assalto in massa di tutto il gruppo grillino, ha dato agli assistenti un ordine preciso: prima entrano i membri della commissione, e poi tutti gli altri. Decine di grillini vengono così bloccati sulla porta, e rimangono nel corridoio del quarto piano. Per loro le porte si aprono alle 10,30 precise: troppo tardi per fermare la commissione, perché Sisto sta già mettendo ai voti il via libera alla proposta di legge. «Pongo in votazione il mandato al relatore… chi è favorevole alzi la mano». È allora, mentre le braccia alzate attorno al tavolo accendono il semaforo verde per la riforma elettorale, che i grillini capiscono di essere stati battuti sul tempo. «Questa è dittatura!» grida l’ex capogruppo Riccardo Nuti. Che aggiunge: «Chiediamo il conteggio dei voti! Non c’è stato alcun conteggio!». Alessandro Di Battista sa che i suoi colleghi stanno riprendendo tutto con i telefonini, e dunque parte con gli slogan: «Qui fuori la gente muore di fame!». È una raffica: «Burattini al soldo di un pregiudicato!», «Pagliacci!», «Fate schifo!», «Vergognatevi, venduti!». I malcapitati commissari si sentono in gabbia, circondati da una cinquantina di grillini, e lo sono, perché i Cinquestelle si sono messi davanti
alla porta e hanno deciso che da lì non esce nessuno. Viene sfiorato lo scontro fisico quando Emanuele Fiano (Pd) decide che lui uscirà comunque da quella stanza. Ci provano, a fermarlo, ma lui è alto più di un metro e 90 e ha le spalle larghe quanto un armadio: nessuno riesce a trattenerlo. La biondissima Dorina Bianchi, arrivata in ritardo, non riesce invece a entrare: i grillini le sbarrano la strada.
È finita? Macché. Di Battista,
il più svelto di tutti, si fionda in sala stampa e punta dritto verso il capogruppo democratico Speranza, che sta per dare un’intervista a una tv. «Non ti vergogni?» gli urla da lontano. Speranza: «E di cosa?». «Di fare leggi elettorali con i condannati! ». «Ma sei tu che hai votato con Berlusconi... «. Di Battista si avvicina e alza ancora la voce: «Tu sei un dipendente del popolo italiano!». Speranza, infastidito, gli appoggia una mano sul braccio e l’altro salta subito
su: «Che fai, mi tocchi?». Il capogruppo (togliendo subito la mano): «Ma tu perché blocchi la democrazia? Io voglio cambiare l’Italia». «E allora tagliati lo stipendio!». «È inutile, voi siete fascisti». «No, noi siamo dalla parte dei poveri» risponde il grillino, e rivolto alla telecamera ruba l’intervista al democratico, parlando direttamente ai telespettatori: «Vedete, le persone come lui sono schiave del potere… Gli italiani hanno fame, e loro hanno tolto il pane
agli italiani. Bisogna sbugiardarli in questo modo!». Speranza si arrende e se ne va, mentre l’altro continua il suo spot, con il tono soddisfatto di un Robin Hood che ha appena buttato giù dal balcone lo sceriffo di Nottingham. Missione compiuta.
Alle 13 comincia la discussione in aula. Si torna sul luogo del delitto, dopo l’assalto ai banchi del governo della sera prima. Un commesso ha una mano fasciata: si scopre solo ora che è
stato morso da una deputata grillina durante l’assalto di mercoledì sera. L’indiziata ha un nome e un cognome: Silvia Benedetti, tostissima biologa padovana di 34 anni. Lei però non vuole commentare l’episodio: «Ho già chiarito la questione con il commesso, mi sono premurata che fosse tutto a posto, siamo in rapporti cordiali ». Insomma lei l’ha morso, ma lui l’ha perdonata (o almeno così dice lei).
L’aria è pesantissima, a
Montecitorio. «La verità è che questi si muovono come dei guerriglieri, ma noi non siamo organizzati per fare l’antiguerriglia » confessa sottovoce uno degli assistenti parlamentari. Le prime contromisure sono già scattate, però. Dalla notte prima, gli uffici della presidente Boldrini sono blindati: la porta a vetri è chiusa a chiave, si entra solo dopo essersi presentati. E quando la seduta finalmente comincia, con un abbondante ritardo, attorno alla
presidenza sono schierati trenta commessi, agli ordini del nuovo assistente superiore Marcantonio Ferretti.
E invece, a sorpresa, i grillini non si presentano in aula. Per protesta, fanno sapere. Sono solo in tre, sui banchi dei Cinquestelle. Una è Loredana Lupo, la deputata che si è beccata la manata del questore Dambruoso e ora chiede giustizia alla Boldrini, non accontentandosi della giustificazione dell’interessato («Sento la necessità di scusarmi con la deputata Lupo, che ho involontariamente colpito…»). La presidente promette accertamenti rapidi, ma bacchetta severamente lei e i suoi colleghi assenti: «Ieri ho assistito in quest’aula a comportamenti e atti gravissimi che sono estranei a ogni prassi democratica» scandisce.
Non sa ancora — ma lo saprà tra poco — che una decina di deputate del Pd sta denunciando per ingiurie il grillino Massimo De Rosa, uno di quelli che dopo l’assalto in aula hanno occupato la commissione Giustizia. Aveva un casco in mano, era uno dei più agitati e a un certo punto — c’è scritto nella denuncia — ha gridato alle deputate: «Voi donne del Pd siete qui perché siete brave a fare i pompini! ». De Rosa respingerà sdegnato l’accusa di insulti sessisti («Mi riferivo a tutti, uomini e donne») senza forse rendersi conto che certe toppe sono peggio del buco. Oggi si ricomincia: la riforma elettorale affronta il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità, e tutti si aspettano il terzo round.

CLAUDIO TITO
TANTO peggio, tanto meglio. È ormai evidente che il vero obiettivo del Movimento 5Stelle non è altro che questo. Far sprofondare il sistema istituzionale e il Paese stesso nella confusione assoluta. Il proliferare del “grillismo” è direttamente proporzionale all’incapacità della politica di fornire risposte ai cittadini- elettori. Grillo e il cofondatore pentastellato, Casaleggio, hanno bisogno del caos, della paralisi per dimostrare la
loro ragione di esistere. Ma il paradosso, adesso, è proprio questo. La loro essenza si nutre esclusivamente della inattività. Hanno anzi bisogno di provocarla. Anche a costo di essere la causa stessa — e non l’esito — dell’inerzia. È come un organismo che aumenta la sua forza in modo parassitario con gli insuccessi altrui. L’escalation di questi giorni, del resto, non trova altre spiegazioni. La violenza dei toni, l’aggressività dimostrata ieri e mercoledì alla Camera, l’impeachment del capo dello Stato, tutto trova origine esclusivamente in questa esigenza primaria. Il nucleo dell’azione studiata dalla coppia Grillo-Casaleggio è orientato a provocare una sorta di
shutdown
della politica. Una specie di arresto cardiaco del sistema in cui è impossibile assumere decisioni o formulare risposte. E nel quale — come capita negli scritti del “guru” grillino — evocare scenari apocalittici di ogni tipo. Una forma insomma di moderno populismo mirato ad assecondare i malumori dei cittadini e nello stesso ad esaltarli. Descrivere l’Italia perennemente sull’orlo del fallimento, dimostrare l’irrisolutezza del Parlamento e di tutte le istituzioni democratiche diventa lo strumento migliore per fare campagna elettorale.
Quel che è accaduto negli ultimi due giorni a Montecitorio non è grave solo per la intrinseca rissosità ma perché ha evidenziato proprio il tentativo di delegittimare in blocco l’intero impianto istituzionale. Strozzare con quei metodi i lavori parlamentari risponde ad una logica ben poco democratica. Troppo spesso gli
esponenti del Movimento 5Stelle mostrano una cultura istituzionale approssimativa. L’assenza di regole di convivenza all’interno di quello che loro non definiscono un partito, si riflette costantemente nell’esposizione pubblica. I processi decisionali sono oscuri e privi di qualsiasi garanzia di imparzialità. Il ricorso alla rete diventa la giustificazione sistematica per scelte la cui base di consenso è imperscrutabile. Alla fine solo in due comandano: Grillo e Casaleggio. Con un aspetto che sta via via crescendo. Nelle parole dei grillini si coglie sempre più una forma di integralismo che impedisce ogni possibilità di dialogo e confronto. È come se costantemente dicessero: “O con me o contro di me”. È nel giusto ed è legittimo solo chi è d’accordo con loro. L’esito è parossistico nel “congelamento parlamentare” di quel 25% di voti che nelle aule di Camera e Senato sono stati sostanzialmente sterilizzati nella protesta.
Il punto è sempre lo stesso: i vertici pentastellati sanno bene che il prossimo sarà per il loro Movimento l’anno fatidico. Una tornata amministrativa in primavera, poi le elezioni europee e infine — molto probabilmente — il voto nazionale nei primi mesi del 2015. Devono fare campagna elettorale subito tentando di dimostrare agli italiani che la politica — tutta la politica — è collassata e che quindi serve un nuovo ordine. Un buon risultato nelle urne del 25 maggio può diventare il grimaldello per far saltare ad esempio il percorso riformatore appena imboccato.
Anzi, proprio il pacchetto di modifiche alla legge elettorale alla Costituzione che è in via di definizione in questi giorni si configura come il bersaglio da colpire
il più rapidamente possibile. Se il sistema infatti mostra la possibilità di autoriformarsi, rischia allora di incrinarsi quel castello di populismo e demagogia apocalittica edificato dall’ex comico. Del resto esiste un’onda analoga che attraversa quasi tutti i paesi occidentali. Basti pensare al Tea party americano, al Fronte nazionale francese o allo Uk Independence Party inglese. Tutti sintomo di una contestazione cieca. Nessuna di queste formazioni, però, ha raggiunto i livelli di consenso protestario come in Italia. Ma tutti, in modo particolare il Tea party, hanno mostrato la capacità di influenzare le decisioni pur non essendo maggioranza e nonostante il ricorso ad argomentazioni massimaliste e concretamente inapplicabili.
In questo quadro rientra anche la richiesta di “impeachment” nei confronti del presidente della Repubblica. La fragilità e la contraddittorietà delle accuse mosse contro Napolitano rispondono solo ad una esigenza: la propaganda. Resta il tentativo, appunto, di delegittimare le Istituzioni. Provare a mettere in un unico calderone le inefficienze — da eliminare — e le garanzie democratiche, da tutelare. Tutti sanno che la procedura per mettere in stato d’accusa il capo dello Stato non avrà alcun esito. In primo luogo perché l’invocato tradimento della Costituzione non si è mai configurato. Eppure i grillini hanno bisogno di presentarsi alle prossime elezioni con il massimo di carica distruttiva. Sanno che hanno poco tempo per richiamare nell’immaginario collettivo la possibilità dello
shutdowndella
politica. Per loro, perdere il prossimo treno, equivale probabilmente a perdere tutto.

LA QUESTIONE BANKITALIA
ROBERTO PETRINI
ROBERTO PETRINI
ROMA
— Tecnicamente è un aggiornamento del capitale della Banca d’Italia, fissato nel 1936 a 300 milioni di lire, cifra allora molto alta che oggi suona ridicola rispetto alle sole riserve pari a 23 miliardi: i «vecchi» 156 mila euro vengono così portati a 7,5 miliardi. Di conseguenza il decreto (ormai legge) oggetto dell’ira dei grillini (e anche di Fratelli d’Italia) compie un atto dovuto: del resto lo ha promosso il ministro dell’Economia Saccomanni (proveniente da Bankitalia) e lo ha approvato il governatore Visco. Via Nazionale e i «cugini » di Francoforte non sono inclini a sbavature o regali.
Il decreto tuttavia non si ferma alla rivalutazione del capitale, e delle relative quote in mano al sistema bancario italiano (i due maggiori “quotisti” sono Intesa San Paolo con il 42,4% e Unicredit con 22,1%), ma
obbliga
le banche a vendere e a scendere fino al tetto massimo del 3 per cento. La vendita viene favorita eliminando l’attuale clausola
di gradimento per i nuovi azionisti e specificando le tipologie dei possibili compratori (banche, assicurazioni, fondi, anche stranieri). Si ribadisce tuttavia che le “quote” non sono azioni e chi le possiede non può mettere il naso su politica monetaria e vigilanza. Salva dunque l’autonomia.
Se le banche non troveranno compratori sul mercato, tuttavia, come è probabile, sarà Bankitalia a ricomprare le «quote» mettendo mano alle riserve. Per Intesa San Paolo si può ipotizzare una ricapitalizzazione pari a 2,9 miliardi (al lordo delle tasse) e per Unicredit di 1,6 miliardi. Queste risorse andranno a rafforzare il patrimonio delle banche (
common equity tier 1)
che è soggetto a regole internazionali (Basilea, Eba, Bce) e che è stato fiaccato dalla recente crisi. In termini generali una alternativa, viste le magre finanze delle Fondazioni bancarie-azioniste chiamate alle ricapitalizzazioni, a interventi statali (Monti o Tremonti bond vari) o, come stato fatto all’estero, a vere e proprie nazionalizzazioni.

ROMA
— È un moto confuso, disordinato, forse addirittura caotico. Occupano le Aule, assaltano i banchi del governo, presentano l’impeachment a Giorgio Napolitano e ricorrono alla Consulta per annullare voti parlamentari. È la “strategia del caos” del Movimento cinque stelle. Con un obiettivo: uscire dal cono d’ombra nel quale si sono cacciati. A dar man forte alle truppe - sfibrate da giorni di Vietnam parlamentare - ci pensa Beppe Grillo, pronto a sbarcare già stamattina nella Capitale.
Il Quirinale è nel mirino dei grillini dall’avvio della legislatura. L’impeachment, però, è l’arma finale a lungo accarezzata. Ieri, infine, il Movimento è passato ai fatti. Per sostenere la tesi dell’attentato alla Costituzione, i pentastellati hanno presentato un lungo elenco di capi d’accusa. Si punta il dito contro il «mancato rinvio alle Camere di leggi incostituzionali», «l’abuso del potere di grazia» e una «grave interferenza nei procedimenti
giudiziari relativi alla trattativa Stato-mafia». E ancora, al Presidente si contesta l’espropriazione della «funzione legislativa del Parlamento», «l’abuso della decretazione d’urgenza» e finanche la rielezione al Colle.
A sera tocca a Grillo rivendicare l’intera operazione: «Un uomo così non può continuare. Uno che diceva che il fascismo bisognerebbe esportarlo in Urss! Fa il Presidente
del consiglio, non della Repubblica. Deve dimettersi, come consigliò di fare a Cossiga». Il leader allarga poi la critica all’intero operato del Colle: «Sta spalleggiando questa legge elettorale incostituzionale, fatta per tagliarci fuori». Proprio al Movimento va invece l’ovvio plauso del Fondatore: «Questa classe politica ed economica va spazzata via. Vengo a Roma ad abbracciarvi, siete
dei guerrieri meravigliosi. Siamo la nuova Resistenza».
L’offensiva, però, è subito stoppata dalle altre forze politiche. Il Presidente del Senato Pietro Grasso giudica «assolutamente fantasiosa” la richiesta di messa in stato di accusa del Capo dello Stato. C’è comunque una procedura, sostiene, «che va applicata ». Un muro in difesa del Quirinale è subito eretto dal Nuovo
centrodestra e dal Pd, che avverte: «Lo sfascismo non passerà ». Giovanni Toti, a nome di FI, si limita a un generico richiamo: «No alla balcanizzazione del Parlamento
».
Il problema dei cinquestelle è che una fetta considerevole dei senatori grillini boccia la mossa contro il Colle. Non tanto per un problema di merito, ma soprattutto di metodo. In un’infuocata
riunione a Palazzo Madama finiscono sul banco degli imputati i capigruppo Maurizio Santangelo e Federico D’Incà. «Chi ha deciso di presentare l’impeachment? Chi l’ha scritto?», domandano tra gli altri Serenella Fucksia e Francesco Campanella, Elena Fattori e Maria Mussini, Fabrizio Bocchino e Lorenzo Battista.
Il clima diventa incandescente. Urla, parole grosse. C’è chi sostiene
che i vertici abbiano speso anche le firme di alcuni ignari senatori per sostenere l’iniziativa, ma i capigruppo negano. Il ragionamento si allarga al ruolo di Gianroberto Casaleggio e Grillo. Contattata, Fucksia spiega: «Abbiamo solo chiesto chi avesse deciso l’impeachment. Dove l’abbiamo discusso? Si tratta di una cosa grave, siamo sicuri che sia una cosa giusta e sia giusto farlo adesso?». Le risposte non soddisfano: «Cosa ci hanno replicato? Non hanno saputo rispondere. E il capogruppo D’Incà ci ha detto: “Dai ragazzi, parliamo di amore, dobbiamo volerci bene...”. Lasciamo perdere, va’».
L’ultimo tassello della strategia grillina passa dall’annuncio di un ricorso alla Consulta. Il M5S, infatti intende sollevare il conflitto di attribuzione nei confronti di Laura Boldrini e dei presidenti delle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia. Con l’ambizioso obiettivo di annullare le votazioni sul decreto Imu-Bankitalia, sulle carceri e legge elettorale.

REPUBBLICA
SILVIO BUZZANCA
SILVIO BUZZANCA
ROMA
— La legge elettorale approda in aula a Montecitorio. Vi arriva dopo due ore di dibattito su tutto quello che è successo mercoledì sera e ieri mattina nell’emiciclo e nelle commissioni. Vi arriva con un testo base “vecchio”, votato in fretta e furia dalla commissione Affari costituzionali. Senza un voto sugli emendamenti, neanche le ultime modifiche, e
l’incarico di relatore affidato a Francesco Paolo Sisto, il presidente della commissione. Si inizia dunque a discutere, ma sull’iter grava la minaccia della richiesta del ritorno in commissione avanzata da Sel, Fratelli d’Italia e Lega. Ieri però non erano previste votazioni e dunque Laura Boldrini, dopo avere ricordato che sulla questione l’aula è sovrana, ha rimandato il voto a stamani.
Schermaglie procedurali osservate dai banchi del governo da dal ministro Dario Franceschini affiancato dalla sottosegretaria Sesa Amici. Di fronte a lui i banchi dei grillini sono rimasti vuoti: a rappresentare i pentastellati tre deputati con il compito di spiegare la protesta aventiana contro la Boldrini e la tagliola, Sisto e la rapidità del voto in commissione.
Così oggi, solo dopo avere deciso se tutto il caos scoppiato ieri mattina nella Affari costituzionale, non ha inficiato le procedure e i diritti dei deputati, si passerà al primo passaggio formale previsto dall’iter: il voto sulle questioni di pregiudizialità. Sel, grillini, Fratelli d’Italia e Popolari per l’Italia pongono il problema della costituzionalità del testo approdato in aula. I popolari potrebbero però ripensarci dopo un colloquio previsto con Renzi. I Cinque stelle hanno chiesto di votare anche un altro documento sul merito, ma potrebbero scegliere anche oggi la via dell’Aventino.
Questa decisione grillina potrebbe avere una sua importanza se dovesse passare la richiesta di voto segreto sulle pregiudiziali. In caso di assenza del Movimento Cinque stelle è evidente che sarebbe difficile per i malpancisti cercare di “affossare” il testo al primo tentativo. I deputati, invece, prendono molto sul serio l’ipotesi di uno slittamento dei tempi di approvazione della nuova legge.
Infatti, Pd e Forza Italia, dopo avere incardinato il provvedimento ieri, adesso possono affrontare la discussione sapendo che dal primo febbraio scatta la “salvaguardia” del contingentamento dei tempi. E dunque, vista la presenza nel calendario di alcu-
ni decreti legge, è possibile che il voto finale scivoli alla seconda settimana di febbraio.
I tempi verranno stabiliti dalla conferenza dei capigruppo. Nel frattempo ieri sera alla 19 scadeva il termine per la presentazione degli emendamenti. Ne sono arrivati poco più di 400. Ma la possibilità di proporre modifiche è legata al calendario. E quindi il termine potrebbe slittare. Dando altro spazio a trattative e mediazioni.
Intanto è il Pd a formalizzare gli emendamenti frutto dell’ultimo accordo Renzi-Berlusconi sulle soglie, gli sbarramenti, la delega al governo sui collegi. Ma i democratici hanno anche riproposto tutti i 35 emendamenti depositati in commissione. I deputati delle minoranza dem assicurano però che saranno ritirati poco prima del voto. Forza Italia, invece, oltre a ripresentare i suoi emendamenti di bandiera, si è fatta carico di
mettere all’ordine del giorno il cosiddetto “Salva Lega”.
Intanto l’aula ha ascoltato la relazione del relatore di maggioranza Sisto e dei relatori di minoranza Ignazio La Russa, FdI, Matteo Bragantini, Lega, e Nazzareno Pilozzi di Sel. Gli iscritti a parlare nella discussione generale erano 34. Interventi generali, altre schermaglie in vista del primo vero voto.

REPUBBLICA 31/1
FILIPPO CECCARELLI
SONO diversi, e in che cosa, i tumulti grillini da quelli della pur ricca tradizione parlamentare
italiana?
La risposta è necessariamente ambigua: sì e no. Sono più estesi e diffusi, ad esempio; un tempo tutto avveniva più o meno in aula, con appendici nel Transatlantico, al giorno d’oggi gli spazi di contesa - come li definiscono i sociologi - si moltiplicano nelle commissioni e specialmente dinanzi alle telecamere. L’obiettivo di fondo, il nirvana della guerriglia, è plausibilmente la simultaneità, se possibile in diretta
streaminge
connessione con la piazza antistante.
Di qui la seconda differenza rispetto al passato. Più che intensa, la baraonda a cinque stelle è e deve essere visibile. O meglio, in un tempo dedicato all’immagine ha tutta l’aria di essere stata allestita secondo una sensibilità eminentemente televisiva. Nella Prima Repubblica nessuno
si sarebbe mai sognato di inalberare cartelli, striscioni, bandiere, tanto meno di indossare bavagli e suonare il fischietto.
Va da sé che la pulsione coreografica, per così dire, non riguarda solo i deputati del M5S. In pieno bailamme, per dire, gli onorevoli di Sel gli hanno risposto dai loro banchi intonando «Bella ciao». Non è nemmeno la prima volta che a sinistra reagiscono in questo modo, ma sarebbe comunque molto complicato spiegare a un osservatore straniero non si dice qui l’efficacia, ma anche soltanto il senso di quella canzone, in quel momento, e rivolta a quegli altri deputati e deputatesse.
A meno di non ritenere, sulla base di altri analoghi episodi, che l’esibizione «spettacolare», molto tra virgolette, e gli aspetti scenici e sonori abbiano ormai assoluta preminenza sullo scontro fisico. A questo proposito, checché se ne dica, i tumulti di questi giorni paiono o forse sono molto meno violenti di quelli vissuti da tre o quattro generazioni di giornalisti parlamentari quando ancora in tribuna non c’erano le telecamere, tantomeno la moviola a disposizione del collegio dei Questori.
Si può anche azzardare che i guerrieri d’aula, ma un po’ tutti i parlamentari, avessero ai tempi assai meno
paura di farsi male. Forse l’attuale prudenza è un effetto positivo della fine delle ideologie. Forse è l’incerta leggerezza delle culture politiche a spingere in direzione della caciara piuttosto che liberare la più fredda e brutale aggressività. Ma nelle «risse che furo» esistevano veri e propri specialisti. Il fratello di Pajetta, Giuliano, era detto «il Giaguaro» per la contundente agilità con cui balzava da uno scranno all’altro, ma anche il gruppo dc disponeva di robusti e rinomati Coldiretti per nulla affatto disposti a lasciarsi intimidire.
Anche i radicali, che negli anni 70
e 80 erano pochissimi e anche non violenti, mostravano un certo animo e un’indubbia, a volte persino eroica attitudine a far saltare i nervi, specie ai comunisti, ma anche ai missini. Oggi è un brulichio di anonimi personaggetti. Prima erano calci e pugni, ora si tratta di pacche e manate più o meno involontarie, spintarelle, sputi, al massimo morsi.
Vero è che per risalire alle pietre miliari della violenza parlamentare tocca tornare molto indietro. L’ostruzionismo delle sinistre sul Patto Atlantico (1949) e quello al Senato sulla legge truffa. In quest’ultimo caso,
la domenica delle Palme del 1953, nel corso di una seduta di cui non fu mai approvato il verbale, la scazzottata durò la bellezza di 35 minuti. Il presidente dell’assemblea, il povero Meuccio Ruini, peraltro subentrato dopo le dimissioni dello spaventatissimo Paratore, fu centrato da un pesante calamaio in testa e prima di cedere ebbe il tempo di esclamare: «Viva l’Italia!». Ma la furia fu tale che vennero brandite le sedie degli stenografi, sradicate e poi lanciate le tavolette dei banchi, così come le aste dei microfoni usate a mo’ di lance.
Ora, non è per addentrarsi su terreni tecnicamente impervi, ma l’impressione è che l’altro giorno, magari per l’effetto-sorpresa, non abbia funzionato troppo bene o che occorresse rafforzare il muro dei giganteschi commessi, di solito impeccabili. Forse lo sfondamento è avvenuto con eccessiva facilità. Forse i questori di un tempo avevano una maggiore tenuta psicologica.
E dinanzi a casi del genere, per quel poco che importa, ci si sente inesorabilmente vecchi, ma il punto vero è che forse il Parlamento è davvero molto cambiato, nel senso che ha perso peso, serietà, gravità, indipendenza, in una parola cultura istituzionale. E non c’entrerà nulla, ché anzi su questi problemi è bene che si torni a legiferare in maniera intelligente, ma neanche a farlo apposta proprio nel giorno della zuffa, passeggiando nel cortile che un tempo ospitava l’aula Comotto, proprio là dove nel 2006 l’onorevole no global Caruso aveva piantato cannabis, un deputato di derivazione leoncavallina si è rollato e fumato una canna.
Tutto è successo così in fretta, anche nei tafferugli. Dall’epopea western alla commedia, fino ai cartoni animati. Oppure, se si preferisce, il tifo dello stadio si è insediato nelle istituzioni rappresentative. In ogni caso la «super-cazzola» evocata dal democratico Di Lello, le monete di cioccolata, i pompini, il perdono del commesso morsicato, l’incongruo «boia chi molla» accompagnano e alimentano il parapiglia. Dalla politica all’isteria il passo evidentemente era breve, ma solo nel caos ci si rende conto di averlo purtroppo compiuto.

CORRIERE DELLA SERA
Impeachment
‘‘La messa in stato di accusa o impeachment («imputazione») è un istituto giuridico nato in Inghilterra alla fine del 1300 e poi disciplinato dai padri costituenti degli Usa nel 1787: prevede il rinvio a giudizio di titolari di cariche pubbliche che abbiano commesso determinati illeciti nell’esercizio delle loro funzioni. In Italia il termine è stato usato contro i presidenti Francesco Cossiga (nel 1991) e Giorgio Napolitano (in questi ultimi due anni) in occasione dei tentativi da parte di alcune forze politiche di attivare la procedura prevista dall’articolo 90 della nostra Costituzione che, per alto tradimento o attentato alla Carta, prevede la messa in stato di accusa dei capi di Stato dal Parlamento in seduta comune e a maggioranza assoluta

LA STAMPA


Con una velocità inversamente proporzionale ai ritmi di giornata, la presidente Laura Boldrini ha infilato la porta ed è scomparsa nei corridoi. Dietro di lei alcuni deputati a cinque stelle, imbavagliati, stavano scendendo le scale dell’aula per circondare i banchi del governo. Altri si erano sdraiati per terra, altri ancora erano rimasti ai posti e ci davano dentro coi fischietti, oppure alzavano cartelli con scritto “corrotti” e “vergognatevi”. Dall’alto, i fratelli d’Italia lanciavano monete di cioccolato intanto che i commessi di Montecitorio - già preventivamente schierati - cercavano di impedire ai grillini la presa degli scranni da dove il ministro dei Rapporti col parlamento, Dario Franceschini, svelto di gamba, era fuggito per tempo. Il povero sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, più appesantito, era invece rimasto intrappolato nel tumulto. Attorno a lui se le suonavano di santa ragione: i cinque stelle - con l’età e il numero dalla loro - abbattevano il cordone e salivano all’impiedi sui banchi, da dove i commessi li tiravano giù con mossa da samurai. Fabio Rampelli (F.lli d’Italia) sventolava un tricolore. La colonna sonora era a cura del Pd, i cui parlamentari intonavano il sempiterno coro «fascisti, fascisti». Fin qui, il racconto da testimoni oculari. Seduta conclusa, fuori i cronisti.
All’ingresso dell’aula arriva un deputato a cinque stelle: «Il questore Stefano Dambruoso ha dato uno schiaffo a una dei nostri. Lo ha ammesso davanti a dieci persone». I suoi colleghi lo scortano e confermano. Spunta la schiaffeggiata, Loredana Lupo: «Mi ha dato una sberla sulla guancia destra, mi ha fatto saltare una lentina». È lì lì per piangere. Angelo Tofalo (che qualche ora prima aveva gridato «Boia chi molla» in aula) racconta: «Ho chiesto a Dambruoso che avesse in testa. Mi ha risposto “la violenza chiama violenza”). Dentro continua l’occupazione. Dai settori di Sel e Pd cantano “Bella ciao”; da quelli di M5S e F.lli d’Italia rispondono con l’inno di Mameli. In un clima di rinata indole novecentesca, esce Massimo Corsaro: «Ci voleva una presidente comunista per vendere Bankitalia. Che schifo, che vergogna». Intanto Dambruoso non risponde al telefono, ma dopo qualche minuto decide di raccontare la sua. Nega tutto. Dice che era lì per difendere la presidente Boldrini, e la violenza era degli assalitori. Ma poco dopo le immagini trasmesse da La7 mostrano il questore, candidato alle ultime elezioni con Monti, spingere la Lupo e sferrarle il ceffone.
Intanto però non ci si capisce nulla. Quelli a cinque stelle sono caricati a mille. Stefano Vignaroli dice che andrà in tribunale perché Dambruoso «mi ha detto che di donne ne ha picchiate tante». Anche la Lupo denuncerà Dambruoso e le deputate del Pd denunceranno il grillino Massimo De Rosa. È successo che, intorno alle 21, liberata l’aula, i cinque stelle hanno occupato alcune commissioni, fra cui la commissione Giustizia e De Rosa avrebbe detto ad Alessandra Moretti e alle sue compagne: «Siete qui soltanto perché fate pom...». Alleluja. «In questo paese se non fosse per noi ci sarebbe la guerra civile e dal Parlamento dovrebbero scappare con gli elicotteri», dice Roberto Fico. «Non torneremo in aula pacificamente», aggiunge Giuseppe Brescia. Oggi la guerra continua con il deposito della richiesta di impeachment per Giorgio Napolitano. Ed è di vilipendio l’accusa al deputato a cinque stelle, Giorgio Sorial, che martedì aveva definito un boia il capo dello Stato.
Il bollettino medico e bellico è provvisorio e aggiornato alla tarda serata di ieri. Una giornata lungo la quale lo spossante ostruzionismo dei grillini aveva l’obiettivo di far decadere il decreto Imu-Bankitalia, uno strano ibrido che alla riduzione delle tasse sulla casa associa la rivalutazione delle quote dell’Istituto centrale (un regalo da sette miliardi e mezzo, denunciano). E dalla mattina si sapeva che, entro la mezzanotte, Laura Boldrini avrebbe salvato il decreto con la ghigliottina, e cioè troncando la discussione e imponendo il voto. Una roba mai vista nella storia repubblicana. La presidente, combattutissima, aveva cercato di attutire il colpo concedendo ai contestatori tutto il tempo possibile, fino alle dichiarazioni di voto. Poi la decisione, drastica e autoritaria. «La democrazia è morta», urlano i grillini. Di certo non sta benissimo.