Giacomo Papi, il Venerdì 31/1/2014, 31 gennaio 2014
IL BAMBINO CHE A 18 MESI LEGGEVA IL NY TIMES
Raccontano che fu un bambino strabiliante. Si chiamava William James Sidis ed era nato a New York il 1° aprile 1898, uno scherzo intellettuale della natura. A sei mesi pronuncia la prima parola («door»), a un anno e mezzo legge il New York Times e a tre anni il De Bello Gallico in latino. A quattro parla dieci lingue e a cinque scrive poesie in francese. Memorizza ogni libro, come un personaggio di Borges. A otto anni inventa una lingua – il Vendergood – innestando tedesco, russo e francese nel greco e latino. Per non farsi mancare nulla, butta anche giù la Costituzione dello Stato di Utopia.
La sua fama si propaga. I giornali scrivono di lui. In un giorno di neve del gennaio 1910 un centinaio di professori e studenti di Harvard accorrono per sentirlo parlare della quarta dimensione. William è un bambino e ha la voce sottile: «Prendiamo le figure in tre dimensioni, per esempio il cubo, e usiamole come lati delle figure in quattro dimensioni che chiamo poliedrigoni ». Dal pubblico gli fanno domande e lui ammette che sì, forse la quarta dimensione è il tempo: «Ma dobbiamo immaginare ogni particella come un filo prolungato all’infinito nella dimensione temporale». Entra ad Harvard a 11 anni, il più giovane studente di sempre, e a 16 si laurea con lode. Ha un futuro, ma non lo vuole.
In un’intervista al Boston Herald dice: «Desidero una vita perfetta e il solo modo è la completa solitudine. Ho sempre odiato le folle». Ha trascorso anni terribili, di umiliazioni e soprusi. Lo chiamano freak. Le ragazze per sfotterlo gli scrivono false lettere d’amore.
Decide di scomparire e nascondersi, ma la sua fama lo pedina. Riemerge ciclicamente anche oggi: nella biografia The prodigy di Amy Wallace del 1986, nel film Will Hunting di Gus Van Sant del 1997 e adesso in La vita perfetta di William Sidis di Morten Brask, appena tradotto in Italia da Iperborea: un racconto affascinante e malinconico scandito da attimi che si susseguono a caso come biglie sparpagliate sul terreno, ma che insiste sulla figura del bambino prodigio costruito pezzo a pezzo dal narcisismo dei suoi genitori. Invece, per sperare di capire qualcosa di Sidis occorre cercarlo anche in rete, leggere gli articoli dei contemporanei e i suoi testi astrusi.
Certo, l’educazione conta. «Sidis è il risultato meravigliosamente riuscito di un esperimento scientifico forzato, uno dei più interessanti fenomeni mentali della storia», sentenzia il New York Times quando Will è un bambino. Boris e Sarah, i genitori, sono due ebrei russi fuggiti in America a causa delle persecuzioni politiche e dei pogrom. Sono entrambi estremamente dotati. Sarah è riuscita a diventare medico, Boris insegna psicologia ed è amico del filosofo William James in onore del quale battezza il figlio e con cui condivide la convinzione che nel cervello umano riposi un potenziale inespresso da sviluppare forzando l’apprendimento fin dai primi giorni.
Boris è convinto che suo figlio non sia un genio. È il frutto di un’istruzione corretta. In poche parole, ascrive a sé il merito delle doti di Will. Ma le regole pedagogiche dei Sidis, elencate da Sarah alla biografa Wallace, non appaiono eccessive: «Evita le punizioni, prima causa di paura; Cerca di non dire No; Risveglia la curiosità; Rispondi sempre alle domande; Non forzare e non giudicare secondo standard adulti; Innesta le idee prima del sonno; Non mentire; Trattieniti dall’esibirlo». Almeno su questo punto, Boris non riesce proprio a trattenersi. Suo figlio è il protagonista e il caso esemplare di tutte le sue pubblicazioni scientifiche.
Dopo la laurea, Will si sposta a Houston, Texas, per un dottorato, ma lo cacciano. Quando ritorna ad Harvard per iscriversi a Legge, si innamora di Martha Foley, una ragazza che non lo avrebbe amato mai e che in seguito avrebbe fondato Story Magazine, rivista che contribuì a lanciare J.D. Salinger, Tennessee Williams e Richard Wright. I giornali ritornano a occuparsi di Sidis nel 1919, quando è arrestato durante una manifestazione del 1° maggio a Boston. Al processo si dichiara socialista, pacifista e chiama Dio «The big boss of the Christians». Lo condannano a 18 mesi, ma Boris riesce a risparmiargli il carcere.
La famiglia si trasferisce nel New Hampshire, poi in California, ma Will è entrato in collisione. A 21 anni torna sulla East Coast deciso a rompere con i genitori e trova lavoro come tecnico di calcolatrici: «La sola vista di una formula matematica mi fa ammalare», confida a un amico. «Voglio essere lasciato solo». È impegnato a tenere fermo il cervello, ma il suo cervello si muove comunque. Nel 1925 scrive The animate and the animate, in cui anticipa l’idea dell’anti-materia, ossia di una regione dello spazio in cui il tempo scorre a ritroso. Scrive altri libri, gli interessano la politica, i diritti e la cultura delle tribù pellerossa. Spesso si protegge con uno pseudonimo. «Non sapremo mai quanti libri pubblicò sotto falso nome», dice la sua biografa Amy Wallace in un’intervista radiofonica. A firma John W. Shattuck pubblica una storia d’America dalla preistoria al 1828. Colleziona ossessivamente biglietti d’autobus e inventa la parola «peridromofilo» per chi, come lui, è attratto dai trasporti.
Nel 1937 a Boston conosce una donna. Forse si innamora. Sicuramente si fida. È una giornalista del New Yorker. Scriverà un articolo umiliante intitolato: «Where Are They Now?». L’ex ragazzo prodigio è descritto come un povero scemo in una squallida stanza. Sidis fa causa al giornale per violazione della privacy e, dieci anni più tardi, vince. Muore pochi giorni dopo, per un’emorragia cerebrale, a 46 anni. A Boris, suo padre, era capitato lo stesso a 56.
Sidis è un genio misterioso e disperato, il protagonista di una parabola difficile da interpretare e perfino da ripetere se si vuole preservare il silenzio in cui decise di avvolgerla. Mi piace pensare che abbia nascosto il suo segreto in una piccola storia senza importanza che ho trovato alla fine del suo libro più folle e noioso, Notes on the Collection of Transfers del 1926: «Dicono che uno studente di Harvard salì su un tram e chiese un biglietto. “Dove devi andare”, gli chiese il bigliettaio. “Da nessuna parte”, rispose. “Allora te ne darò uno per Waverly”. Quando lo raccontò, i suoi compagni gli risero in faccia. A Waverly c’era il manicomio». Forse parlava di sè. Forse il bigliettaio era Boris.
La sua vita parla del confine tra genio e pazzia, del rapporto tra natura e cultura, del desiderio di essere famosi e del bisogno di diventare invisibili. Dice che ogni cervello è infinito se può concepire l’universo, ma che qualcosa, necessariamente, trabocca anche dal pensiero perfetto e che nessuna parola, per quanto grande, può rendere conto dell’immensità di una vita, per quanto piccola. Perciò, forse, William Sidis sperò di sparire. Aveva compreso che la vanità è la stupidità assoluta, il peccato più grave contro l’intelligenza, e che nessuno con un cervello dovrebbe concepirsi al centro di niente. Dicono che avesse fatto proprio un ideale indiano, l’okamakakammesset, secondo cui il valore di un uomo e la sua utilità per gli altri non possono in alcun modo essere misurati dalla sua visibilità.
È sepolto a Portsmouth nel New Hampshire. Sulla lapide, nascosta dall’erba, è scritto: «William J. 1898-1944».
Giacomo Papi