Andrew Jacobs, il Venerdì 31/1/2014, 31 gennaio 2014
IN CINA? PROSTITUTE SFRUTTATE (MA DALLO STATO)
PECHINO. Immersa nel fascio di luce rosa fluorescente che indica che è disponibile, Li Zhengguo snocciola a macchinetta i rischi legati al suo lavoro di prostituta in Cina: clienti maneschi, il fantasma dell’Hiv e le crudeli occhiatacce dei vicini che le lacerano l’anima. «La mia vita è piena di angoscia» dice tra un cliente e l’altro. «Talvolta mi sento marcia dentro per aver venduto il mio corpo». La paura più grande, tuttavia, è quella della polizia. L’ultima volta che gli agenti le hanno fatto visita, l’hanno trascinata alla stazione locale della polizia per poi spedirla senza processo né rappresentanza legale in un centro di detenzione nella vicina provincia di Hebei: vi ha trascorso sei mesi, fabbricando fiori ornamentali di carta e recitando a memoria le leggi che considerano la prostituzione un reato. La sua carcerazione al Centro di detenzione e rieducazione di Handan si è conclusa con un’ultima atroce beffa: ha dovuto pagare di tasca propria l’intero soggiorno, versando il corrispettivo di circa 60 dollari al mese. «La prossima volta che la polizia mi porta via, mi taglierò i polsi» dice la trentenne Li, madre single di due maschi.
A novembre, quando il governo cinese ha annunciato di voler abolire «la rieducazione per mezzo del lavoro forzato» – un sistema che consente alla polizia di rinchiudere senza processo e anche per quattro anni in campi di lavoro piccoli delinquenti e chiunque si lamenti a voce troppo alta delle condotte illecite del governo – i sostenitori della riforma giudiziaria avevano cantato vittoria.
In realtà, invece, continuano a coesistere due meccanismi paralleli di condanne extragiudiziarie: una per chi commette reati con le sostanze stupefacenti e un’altra per le prostitute e i loro clienti. «Gli abusi e le torture proseguono, ma in modo diverso» spiega Corinna-Barbara Francis, una ricercatrice cinese che lavora per Amnesty International.
L’ambiguo sistema penale che prevede per le prostitute «detenzione e istruzione», infatti, assomiglia in modo sconcertante alla rieducazione per mezzo del lavoro forzato. Gli istituti penali gestiti dal ministero della Pubblica Sicurezza trattengono le donne anche per due anni, spesso imponendo loro di faticare negli stabilimenti sette giorni alla settimana senza retribuzione, facendo loro fabbricare giocattoli, bastoncini usa e getta, pannolini per cani, tutti articoli che le detenute dicono essere destinati per lo più all’esportazione. In penitenziari di questo tipo sono rinchiusi anche i clienti delle prostitute, ma in numero di gran lunga inferiore: è quello che risulta da un rapporto pubblicato a dicembre dal gruppo di attivisti Asia Catalyst.
Le donne passate attraverso alcuni dei 200 penitenziari e riformatori del Paese parlano di spese onerose e di violenze per mano dei secondini. Per quanto riguarda la rieducazione per mezzo del lavoro forzato, la polizia infligge condanne senza processo e con scarse possibilità di ricorrere in appello. «Si tratta di un sistema arbitrario, violento e devastante in termini di salute pubblica» dice Nicholas Bequelin, ricercatore di alto grado presso Human Rights Watch, che l’anno scorso ha pubblicato un rapporto sui pericoli ai quali vanno incontro le donne che in Cina sono attive nel fiorente mercato del sesso. «Questo è un altro ramo marcio del sistema giudiziario cinese, e dovrebbe essere asportato».
Il rapporto di Asia Catalyst presenta la detenzione e l’istruzione delle donne carcerate come un settore estremamente redditizio, mascherato da sistema per la rieducazione femminile. Istituiti dal ramo legislativo cinese nel 1991, i penitenziari sono gestiti dai dipartimenti locali della sicurezza pubblica, che hanno l’ultima parola in fatto di condanne. Chi esce da questi centri racconta che in qualche caso sono i medesimi agenti di polizia a sollecitare il pagamento di qualche mazzetta per accelerare la scarcerazione.
Il governo non rende note a intervalli regolari le statistiche riguardanti il programma, ma gli esperti stimano che ogni anno sono rinchiuse nei penitenziari tra le 18mila e le 28mila donne. Le detenute sono obbligate a pagare di tasca propria per vitto, esami medici, giaciglio, lenzuola e altri articoli essenziali come sapone e assorbenti igienici, e la maggior parte di loro arriva a spendere circa 400 dollari in sei mesi di soggiorno obbligato. Asia Catalyst ha raccolto anche alcune testimonianze, tra cui quella di una donna secondo la quale «chi non può permettersi di pagare, da mangiare riceve soltanto focaccine cotte al vapore». In alcuni penitenziari per poter far visita a un parente detenuto si devono versare anche 33 dollari per il biglietto di ingresso.
Coloro che hanno analizzato il sistema dicono che gli uffici della sicurezza pubblica a livello locale guadagnano cifre molto consistenti sfruttando quello che a tutti gli effetti è lavoro forzato.
L’approccio del governo cinese alla prostituzione è incoerente e contraddittorio. Dopo la vittoria dei comunisti nel 1949, Mao Zedong fece della riabilitazione delle prostitute una priorità, considerandole vittime dello sfruttamento capitalista. Nei primi anni di governo, egli riuscì efficacemente a sradicare la prostituzione, ma con l’introduzione delle riforme di mercato all’inizio degli anni Ottanta si arrivò a una ripresa del meretricio. In un recente rapporto delle Nazioni Unite si legge che il numero delle donne cinesi attive nell’industria del sesso a pagamento si aggira sui sei milioni.
Oggi in Cina le città sono piene di «negozi di parrucchiera» nei quali non si avvista nemmeno un paio di forbici e che sul retro hanno salette con le tendine abbassate. Nei centri più esclusivi di karaoke, le giovani assistenti lavorano anche come ragazze squillo. Molte prostitute dicono che i poliziotti spesso si fanno pagare per guardare da un’altra parte.
Questa tolleranza soltanto apparente, però, si dissolve del tutto durante le periodiche rigorose campagne di repressione, nel corso delle quali si procede all’arresto di un gran numero di prostitute, per lo più a ridosso di importanti eventi politici. Un funzionario di polizia della provincia di Liaoning ha detto ad Asia Catalyst che ogni città e ogni contea deve rispettare determinate quote di arresti, dando il via a occasionali «raid di repressione del vizio» per incrementare la forza lavoro delle fabbriche dei penitenziari.
Secondo gli attivisti che si battono per il rispetto della legalità, la polizia spesso ricorre all’uso della forza per estorcere confessioni e costringe alcune donne a spogliarsi per scattare fotografie che diventeranno prove a carico delle loro trasgressioni. «Sono trattate male e la loro dignità è sistematicamente violata» dice Shen Tingting, direttore del team di avvocati di Asia Catalyst. «L’intero sistema stigmatizza le donne e diffonde il messaggio che quelle che lavorano nell’industria del sesso sono marchiate e devono essere rieducate».
Le donne descrivono i campi di lavoro come tollerabili, ma pesanti e ripetitivi. In un’intervista, una 41enne originaria della provincia di Jiangxi, nel sudest, dice di aver trascorso il periodo di detenzione in uno dei campi di lavoro fabbricando peluche tutti i giorni, talvolta anche fino alle 23. La donna che si presenta solo con il nome che usa quando si prostituisce (Xiao Lan, Piccola orchidea) dice che «cuciva per così tante ore che le facevano male le mani». Quando le si chiede informazioni sulla parte rieducativa del programma ride e racconta che tutto si limita a lunghe sessioni nelle quali le detenute devono imparare a memoria il regolamento interno del carcere: «Noi dovevamo chiamare i secondini maestri, loro ci chiamavano allieve, ma non abbiamo imparato proprio nulla».
Xiao Lan, scarcerata dopo sei mesi di reclusione, è tornata immediatamente al suo mestiere di sempre e dice che «anche le altre ragazze fanno altrettanto». Contattati telefonicamente, alcuni agenti della pubblica sicurezza di vari distretti che lavorano in grandi penitenziari e riformatori si sono rifiutati di discutere dell’argomento, dicendo di non essere autorizzati a parlare con i mezzi di informazione.
Quanti si prefiggono l’abrogazione dell’intero sistema ammettono che la strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa. Il sostegno popolare per la riduzione delle pene per il reato di prostituzione è limitato, ed è inverosimile che l’influente apparato cinese della sicurezza interna sia disposto di sua volontà a rinunciare al potere e ai guadagni che ricava dall’attuale sistema.
Le indecenti situazioni legate alla carcerazione fanno ben poco per dissuadere le donne che col mestiere di prostituta possono guadagnare il corrispettivo di mille dollari al mese, pari al triplo del reddito medio di un operaio cinese non qualificato.
Li, madre single di due maschi, dice di essere analfabeta e che non potrebbe mai guadagnare granché con un lavoro tradizionale: «Sono una ragazza di campagna senza cultura e senza competenze» racconta questa ex guardiana di maiali che oggi si vende davanti all’angusta facciata di un negozio nel centro di Pechino. Una parete quasi inconsistente separa il luogo nel quale lavora dalla camera da letto che condivide con i figli. Li può contare su una clientela abituale, formata per lo più da uomini sposati e operai immigrati in preda alla solitudine, ma anche gli habitué talvolta cercano di ingannarla e di non pagarla. Ci sono poi uomini che sostenendo di essere agenti della polizia esigono prestazioni gratuite, clienti che tagliano furtivamente la parte superiore dei preservativi, e ubriachi che esplodono in reazioni colleriche e violente quando Li si rifiuta di eseguire le prestazioni richieste. Li dice che in questi casi vorrebbe chiamare la polizia, se non sapesse che essa si schiera sempre dalla parte del cliente. Detto ciò, si congeda e se ne va per appartarsi con un cliente in attesa fuori dalla sua porta.
Andrew Jacobs
Traduzione di Anna Bissanti
© 2014 New York Times News Service77