Paolo Sorrentino, il Venerdì 31/1/2014, 31 gennaio 2014
IL SEGRETO DEL REGISTA A DUE TESTE
Per il grande talento, funziona come con i gioielli di famiglia prima di partire per le vacanze. Li nascondi con così tanta cura in casa che, per ritrovarli, devi iniziare un lungo, paziente lavoro di ricerca. Dunque, procedi per tentativi.
I registi di Inside Llewyn Davis (A prosito di Davis), i più talentuosi della loro generazione, sono così. Hanno nascosto per bene il loro segreto e parlano del loro lavoro in termini di fatica, di memoria, di esperimenti. Solo così, alla fine, provano a scovare il nascondiglio della loro virtù che, come tutte le cose molto preziose, puoi solo contemplare a bocca aperta.
Il talento, come il diamante perfetto, è inspiegabile. Perché è un mistero.
Sono andato in un’assolata mattina di maggio a incontrarli in una bella stanza d’albergo con l’insensata speranza di rubare i meccanismi del loro lavoro. Ma era una pura illusione. Perché il talento non si nutre di ragionamenti, ma di sensazioni che si rivelano giuste per se stessi. E le sensazioni appartengono solo a chi le vive. Non sono condivisibili. Questo è il piccolo dramma di chi, come me, vorrebbe imparare qualcosa da questi due mostri dell’arte cinematografica.
«Quando scrivemmo Fargo eravamo consapevoli che il personaggio principale compariva dopo quaranta pagine. Una scelta narrativa insolita. Ne abbiamo parlato, ci siamo basati su una vaga sensazione, e siamo arrivati alla conclusione che il pubblico sarebbe stato al gioco», dice Joel. Ma è successo di più, il pubblico non si è limitato solo a stare al gioco, e Fargo è diventato un cult movie indimenticabile.
Quando hanno realizzato No Country For Old Men (Non è un paese per vecchi) non hanno inserito neanche una nota di musica, il che non ha impedito agli spettatori di rimanere folgorati dalla partitura sonora. Ora hanno fatto l’opposto. Hanno realizzato Inside Llewyn Davis, e quando il protagonista, un cantautore folk prima dell’avvento di Bob Dylan, lascia partire una canzone, la snocciola dinanzi alla macchina da presa dalla prima all’ultima nota, contraddicendo la regola elementare secondo la quale, al cinema, una canzone, per non annoiare lo spettatore, deve sfociare in un’altra scena.
E, ancora una volta, lo spettatore non si annoia. Anzi, funziona! Insomma, ecco il talento o, come si suol dire, l’Autore. Ecco la sensazione di essere immersi nel bello, andando contro le consuete regole dell’estetica cinematografica. Per spostare la barriera dell’arte un pochino più in là e unire, al bello, l’inedito. L’unica arma che sconfigge la maniera.
Come quando girarono Il grande Lebowski. Un trionfo di personaggi meravigliosi e un uso smodato e leggendario della divagazione nelle scene. Fino all’apparizione di questo film, la divagazione era considerata il grande nemico dello spettatore ammalato di logica.
I Coen hanno convinto gli spettatori della forza della divagazione. Hanno sdoganato la gratuità, elevandola a forma d’arte, regalando a tutti i cineasti successivi una nuova, impensata forma di libertà, anche se poi, a ben vedere, si tratta di una libertà illusoria, perché come riesce a loro l’arte del divagare non riesce a nessun altro.
E, a proposito de Il grande Lebowski, mi raccontano che, a intervalli regolari di tempo, John Turturro propone loro di fare uno spin off di quel film. Un nuovo lavoro incentrato sull’indimenticabile figura di Jesus, il campione di bowling sospettato di pedofilia.
Non lo faranno. Invece, hanno in mente un seguito di Barton Fink, dove Turturro sarà un vecchio professore di scrittura e drammaturgia a Berkeley.
Mi spingo a chiedere, tra tutti questi film strepitosi che hanno realizzato, qual è il loro preferito. Ma, come risposta, ottengo un prolungato silenzio.
Mugugnano qualcosa, ma non trovano la risposta.
Nella stanza d’albergo assolata siamo in tre, ma ci sono solo due sedie. Una per me, un’altra per Joel che se ne sta seduto, pacato e ciondolante come un pendolo rallentato, con le palpebre calate quasi per intero sugli occhi e un mezzo sorriso.
Non è prevista una sedia per il fratello Ethan che percorre avanti e indietro la stanza, senza sosta e senza nervosismo, dedicandosi sporadicamente a dei chicchi d’uva.
Hanno atteggiamenti opposti; il primo biascica lentamente, il secondo fa schizzare le parole come palline da ping pong, ma, sempre, uno completa le frasi dell’altro, come se a parlare fosse una sola persona.
Sono i fratelli Coen, anche detti Il regista a due teste.
Scrivono insieme tutte le scene, fin nei minimi dettagli. Le rileggono solo dopo averle stampate su carta. E mentre scrivono, si domandano costantemente: «Funziona?», «Coinvolge lo spettatore?».
Le riscrivono, mentre continuano a stampare tonnellate di carta.
Naturalmente, in questa fase, sono loro gli spettatori. Un narratore di valore è tale solo se è anche uno spettatore di valore.
Poi, quando girano, giocano.
E per giocare bene, bisogna fare sul serio.
«Le regole sono precise. Hai un certo numero di giorni a disposizione e una certa cifra e devi lanciarti. Come se un colpo di pistola ti desse il via», afferma Joel.
«Cercare di fare un film perfetto significa… », afferma Ethan, e Joel, mentre mangia uno yogurt, completa: «…barare. Sì, non fare mai un film perfetto».
Li tranquillizzo, è un rischio che non corro nemmeno fortuitamente.
«Bisogna attenersi alle regole. Non quelle di Von Trier, che prima ha stabilito i principi di Dogma e poi li ha violati», ridacchiano all’unisono e concordi, ma senza cattiveria, i due fratelli.
Pur essendo dei registi eccezionali, con una capacità di messa in scena fuori del comune e una precisione invidiabile, ritengono che il momento del montaggio sia, semplicemente, la fase di risoluzione dei problemi.
Quali problemi? Mi chiedo scandalizzato nell’intimo. Io non ne vedo. Io ero convinto che, con quel livello di precisione registica, il montaggio fosse per i Coen pura routine e loro invece affermano: «È la fase della disperazione. Il momento in cui dobbiamo decidere se infilarci una pistola in bocca e premere il grilletto o infilarci nella vasca da bagno e tagliarci le vene. Il montaggio serve a risolvere i problemi».
Ridono, perché i registi, in realtà, si divertono solo quando risolvono i problemi. Quando non ci sono difficoltà, i film risultano piatti e prevedibili.
E, dal momento che i problemi non è umanamente possibile risolverli tutti, ecco che non ci sono film perfetti.
Perché la perfezione è un luogo astratto che alberga, in modo altrettanto astratto, solo nella testa dello spettatore ingenuo e pedante. Si criticano costantemente i film, ogni tanto si dovrebbero criticare gli spettatori. La maggior parte delle persone tende a leggere il film innanzitutto come una concatenazione ferrea di fatti razionali, mentre i grandi autori procedono in maniera clamorosamente opposta.
I Coen lo dicono molto chiaramente: «Abbiamo consapevolezza di cosa funziona in un dato momento» e questo è il risultato dell’acquisizione di un mestiere, «ma a posteriori, guardando quello che abbiamo fatto, ci rendiamo conto che quello che ci ha guidati è una sensibilità inconscia e non ne siamo consapevoli».
Anche Fellini, ripensando ai suoi film, diceva che un altro io, una persona che non era lui e che non riconosceva, aveva comandato e disposto il film.
«Io sono agli ordini di questo personaggio interiore, che conosco molto male, che mi detta le opere», diceva Cocteau.
Tutte queste affermazioni, profondamente vere, mi allontanano ancor più dalla remota chance di carpire qualche segreto. Insisto sul film preferito che hanno realizzato e ottengo un altro silenzio. Allora, per non fallire nel mio intento di imparare qualcosa, sposto la mia attenzione nei loro confronti sul concetto di esperienza.
I fratelli Coen hanno fatto sedici film, molti memorabili. La loro è una filmografia lunga e importante. Azzardo: «Se uno dicesse che questo vostro ultimo film è il vostro lavoro più maturo, cosa direste?». Riflettono.
Joel abbassa le palpebre del tutto. Ethan accelera il passo.
Joel solleva le palpebre, sorride e dice: «Non siamo maturi, siamo vecchi».
«E questo non è bello. È molto triste», dice Ethan senza crederci veramente e aggiunge: «E comunque c’è un che di allarmante nella definizione di maturità, perché implica anche la serietà…» «… e noi non vogliamo perdere la leggerezza della gioventù», completa Joel.
Lo so che non carpirò il segreto del loro talento, poiché quello è il loro talento e non il mio.
Allora provo a carpirne un altro: «E avete un segreto per riuscire a mantenere inalterato l’entusiasmo degli inizi?» Ethan non ha dubbi: «Sì».
E Joel: «Davvero? Vorrei sapere qual è?». «È un segreto», risponde Ethan.
Joel dice: «Ah! È un segreto e quindi non puoi rivelarcelo?».
Ethan non risponde. Io lo imploro: «Perché non ci dici questo segreto?».
Joel scuote la testa: «Lui, Ethan, ha un segreto per mantenere l’entusiasmo, ma non vuole dircelo».
Ethan sorride e non parla. Mi rendo conto di essere parte attiva di un dialogo con non sense annesso che non sfigurerebbe in uno dei loro film.
«Vorrei tanto conoscerlo, questo segreto » chiede senza crederci Joel. Ethan, ridendo e tenendoci sulle spine, dice: «Qualche giorno mi ricordo qual è il segreto. Qualche altro giorno me lo dimentico. Oggi non lo ricordo».
Poi, però, Ethan Coen si ferma di colpo al centro della stanza e dice: «Però mi ricordo la risposta alla tua domanda su qual è il film preferito che abbiamo realizzato». «Quale?», chiedo fremente.
«Il primo film che abbiamo girato. Quando abbiamo avuto la sensazione, per un istante, che non stavamo facendo un lavoro. È una sensazione che non abbiamo provato più».
Alla fine, non ho carpito nessun segreto, ma è venuta giù una bella malinconia, calda, rassicurante e piacevole, come in un capolavoro dei fratelli Coen.
Paolo Sorrentino