Ronald Düker, L’Espresso 31/1/2014, 31 gennaio 2014
MURAKAMI DEI DUE MONDI
[Haruki Murakami]
Eterno candidato al Nobel per la Letteratura, e autore tra i dieci libri più venduti del mondo, il giapponese Haruki Murakami è un uomo timido cui non piace rilasciare interviste. Per una volta, invece, parla esaustivamente: della sua clausura nelle Hawaii per scrivere, della forza spirituale del sesso, della bellezza di una vita quotidiana disciplinata, e del suo ultimo romanzo, " L ’incolore Tasaki Tsukuru e il suo anno di pellegrinaggio ", uscito in Giappone nel 2013 (in Italia Einaudi lo annuncia per maggio nella traduzione di Antonietta Pastore ).
Murakami abita a Honolulu, un luogo improbabile quanto le storie dei suoi libri. Lo studio dello scrittore è piccolissimo, probabilmente non supera i sei metri quadrati. Gli scaffali quasi vuoti di una libreria di metallo contengono un paio di libri in giapponese. Sull’altra scrivania c’è appena posto per il computer e per una tazza thermos. Qui Murakami riceve due volte alla settimana gli studenti: fino all’anno prossimò sarà "scrittore residente" presso l’università. Porta scarpe da tennis, bermuda e una camicia a quadri. Ha il corpo di un trentenne molto sportivo e il volto di un quarantenne, eppure ha da poco festeggiato i 65 anni. Prima di diventare scrittore, a 29 anni, è stato direttore di un jazz club a Tokyo, ed è ancora un collezionista entusiasta di dischi. "Norwegian Wood", "Tokyo Blues", "L’uccello che girava le viti del mondo" e "Kafka sulla spiaggia" sono alcuni dei suoi romanzi più noti.
Il nuovo libro è piccolo, quasi un "romanzo da camera" se paragonato alla sua opera monumentale più recente, "1Q84", che nelle sue oltre mille pagine tocca tutti i registri dell’epica fantasy. "L’incolore Tasaki Tsukuru" del titolo è un trentenne che da ragazzo è stato abbandonato dai suoi unici quattro amici, repentinamente e senza che lui ne abbia mai scoperto la ragione. Sa soltanto che il suo cognome, diversamente da quello degli altri, non contiene il nome di un colore. Per sfuggire al dramma della sua vita totalmente grigia, parte alla scoperta delle ragioni della sua perdita.
Nel nuovo romanzo lei racconta una storia realistica. Non ne poteva più di mondi paralleli e di gatti che si comportano come persone?
«Conosco persone che sono rimaste molto deluse da questo. Ma è esattamente il libro che volevo scrivere in questo momento. E poi, non sono tanto sicuro che si tratti veramente di un romanzo realistico».
D’accordo, il destino dei personaggi sembra dipendere in qualche modo dai colori. E poi c’è un assassinio misterioso...
«Nemmeno io so chi ha strangolato quella donna. So soltanto che in questa storia l’assassinio è imprescindibile. Il miei romanzi e miei racconti sono a volte più fantastici, a volte meno. Ma la scrittura non cambia. In questo romanzo è stato come negli altri. Ho nuovamente sentito la stessa brezza: ricevo notizie dall’altra parte».
È sempre stato così?
«La prima volta mi è successo con "Nel segno della pecora", trent’anni fa. Ero seduto alla scrivania, quando di colpo è comparsa davanti a me una strana creatura, il pastore. Veniva dall’altra parte. Non sapevo chi fosse, né che cosa volesse da me. Sapevo però di averne bisogno. Mi stava arrivando una notizia. Quindi l’ho descritto. Di più non ho dovuto fare».
Come prende queste visioni? Lei è religioso?
«No, ma credo nella forza dell’immaginazione. E che non c’è solo una realtà. Il mondo vero e un altro mondo irreale esistono entrambi, e sono strettamente collegati. Talvolta, si mischiano. E quando voglio, quando mi concentro con molta forza, posso passare all’altro. Posso anche andare e venire. Questo è ciò che accade nella mia narrativa. Le mie storie si svolgono qualche volta da una parte, qualche volta dall’altra. Ormai non sento la differenza».
È una sorta di spiritismo letterario?
«È qualcosa che ha a che fare con la scrittura. Con le cose che mi vengono incontro nell’immaginazione e che mi aiutano a scrivere la storia. Possono essere unicorni, pecore, elefanti, gatti, ma anche l’oscurità o la musica. Tutto ciò acquisisce un’anima soltanto quando ne scrivo. È una forma di animismo. Le cose mi vengono incontro senza che io le richiami. Devo solo concentrarmi molto».
Lei parla di queste cose come se esistessero da sempre.
«A volte mi sento un narratore della preistoria. Gli uomini che mi ascoltano stanno seduti in una caverna. Sono intrappolati perché fuori piove. Ma anch’io ci sono e racconto loro qualche storia. Sono circondato dall’oscurità, però quegli elementi spirituali stanno attorno a me, devo solo acchiapparli. So naturalmente quanto sia terribile la vita nella caverna. Il mio compito consiste quindi nel fare scordare quella vita a chi mi ascolta. È per questo che ho sviluppato una tecnica. Anche se alcuni sono convinti che non sia determinante, è solo grazie alla tecnica che una storia diventa anche una buona storia».
Come ha sviluppato questa tecnica?
«Non l’ho imparata. Ho semplicemente scritto e continuato a scrivere con serietà. La mia tecnica si è sviluppata da sola».
Lei è molto influenzato dalla letteratura inglese e americana. Come mai?
«I miei genitori erano professori di letteratura giapponese. Forse tutto nasce dal fatto che per variare ho cominciato a leggere molto presto anche altre letterature - Dostoevskij, Kafka, Tolstoi, Dickens, e così via. Inoltre, ho tradotto in giapponese molti scrittori americani: Scott Fitzgerald, Carver e Chandler. Ma resto uno scrittore giapponese. Le mie radici sono in Giappone».
Però lei è considerato antipatriottico. Le si rinfaccia di essersi occidentalizzato.
«È una stupidaggine. È che semplicemente non mi piace un certo tipo di narrativa. Ho una vera allergia per autori come Yasumari Kawabata o Yukio Mishima».
Entrambi sono considerati scrittori di fama mondiale, ed entrambi si sono suicidati.
«Anche due tra i miei migliori amici sono morti così. È molto triste. Entrambi avevano però il diritto di farlo. Che in Giappone ci siano più suicidi che in Occidente dipende forse dall’insegnamento buddista, che non ha mai considerato il suicidio un peccato. Alcune persone vedono nel suicidio una certa bellezza, un atto di orgoglio. Ciò mi è totalmente estraneo. Io vivo per potere scrivere».
Come si sente quando scrive?
«Scrivere dà senso alla mia vita. Grazie alle scrittura la mia vita è diventata qualcosa di speciale. La mia scrivania e ciò che per Clark Kent è la cabina telefonica: qui mi trasformo in Superman. Scrivendo posso fare tutto quello che voglio. Posso creare tutto quello che mi passa per la mente. Quando scrivo posso salvare il mondo, ma appena mi allontano dalla scrivania, ridivento Clark Kent. Mi creda: sono davvero una persona comune. Sono un buon marito, non mi arrabbio, non perdo le staffe. Ma dalla mia vita non mi viene neanche un’idea per la mia narrativa. Quando corro, cucino o sto sulla spiaggia, la mia testa è vuota».
Che cosa fa alle Hawaii?
«È un posto molto noioso. Tuttavia, vivendo in un paese noioso come gli Stati Uniti posso sentire di non appartenere ad alcun luogo. Non posso che contare su me stesso e questo mi fa sentire indipendente. Mi piace. In Giappone sono troppo conosciuto. Ci si aspetta che io mi schieri in certi dibattiti, mi riconoscono per strada, anche se non vado mai in televisione. Sto diventando sempre più insofferente a questa situazione. Mi sento molto più libero quando non sto in Giappone.
Vive qua tutto l’anno?
«Da sette anni ho una vecchia casa molto bella a Honolulu. È stata costruita prima della guerra. Ogni due mesi vado in Giappone per visitare mia madre che ha novant’anni e una salute cagionevole. Complessivamente passo otto mesi qua e quattro a Tokyo. L’anno prossimo questo rapporto si invertirà perché scade il mio contratto con l’università e quindi anche il visto. Dopo l’11 settembre gli americani sono diventati molto più severi. A volte mi chiedo: ho l’aspetto di un terrorista?»
Il suo nuovo romanzo si svolge in parte in Finlandia. C’è stato?
«Una volta, negli anni Ottanta, ma non ricordavo molto. Ci sono tornato dopo finito il romanzo. È molto bella».
Non avrebbe dovuto andarci prima di scrivere?
«Non mi piace fare ricerche. Bloccano l’immaginazione. È curioso: mi ero fatto un quadro della Finlandia nella testa e quando ci sono andato ho visto che era tutto esattamente come l’avevo descritto nel romanzo. Un vero déjà-vu. Lo stesso mi è successo con "Kafka sulla spiaggia". Anche in questo caso la città di Takamatsu era un parto della fantasia. Ma quando ci sono andato, è stato come se l’avessi inventata tutta io. Per "L’uccello che girava le viti del mondo" mi è successo lo stesso con la Mongolia. Più lavora intensamente la fantasia, più veritiero diventa il quadro. Però, certo, qualche volta consulto Wikipedia».
I suoi protagonisti sono persone solitarie. Lo è anche lei?
«Sono figlio unico e da piccolo parlavo con i gatti che avevamo in casa. Solitudine per me vuol dire indipendenza. Sono sempre stato una persona indipendente. Uno che si arrangia da solo».
Questo non sembra pesarle.
«Conosco molto bene le depressioni, le angosce, le contraddizioni...».
Ma ci sono delle terapie per questo: la psicoanalisi, per esempio.
«Non ne ho bisogno perché posso scrivere. Quando sono depresso inizio a scrivere un racconto breve. Lì si trova la soluzione al mio problema. L’avvio di questi racconti è alquanto sofferto, ma in qualche modo l’eroe riesce sempre alla fine a dare una svolta alla propria vita. Scrivendo trovo facilmente le soluzioni anche per i problemi più seri. Sono cose alle quali non sarei mai arrivato da solo nella vita reale. È come avere una personalità sdoppiata, giocare a scacchi contro se stessi, senza prevedere le mosse dell’altro. In effetti questa è la condizione schizofrenica di un maniaco depressivo. Ma quando mi alzo dalla scrivania sto meglio. Scrivere lenisce la mia tristezza».
Ricorda i suoi sogni?
«Sogno molto da sveglio così non lo devo fare di notte. Dormo come un sasso».
Lei ha una passione per la corsa: si è già allenato oggi?
«Eccezionalmente no. La scorsa domenica ho partecipato alla maratona di Honolulu, così questa settimana mi riposo. Normalmente corro ogni giorno. Mi alzo alle quattro del mattino, lavoro per cinque ore e poi vado correre. Nuoto, anche, e partecipo a gare di triathlon. Alle 10 di sera vado a dormire».
Perché lo fa?
«Non sono una persona con un grande senso fisico. E non faccio sport perché sia salutare. È piuttosto un meccanismo metafisico. Voglio potermi distaccare dal corpo. Voglio che il mio spirito possa sfuggire al corpo quando mi concentro. Questo è possibile soltanto se lo mantengo forte. Il corpo deve essere un tempio. Una struttura stabile dalla quale io mi possa liberare. Quando scrivo, a volte ho la sensazione di essere circondato da muri di pietra. Sfondarli richiede una forza enorme. Ma solo così posso passare dall’altra parte».
Gli eroi dei suoi romanzi si dedicano con grande cura alla faccende quotidiane.
«È così che io vivo. La mia vita è scandita dalle faccende quotidiane. Lavo i piatti, cucino, stiro. Mi piace, perché mentre svolgo questi compiti la mia testa è totalmente libera dai pensieri. Soltanto quando mi sono svuotato del tutto sono nuovamente nella condizione di produrre qualcosa».
Sembra un rituale spirituale. Fa venire in mente la meditazione buddhista, per esempio.
«Può darsi che senza esserne consapevole, io sia influenzato dalle tradizioni giapponesi. Ma credo che si tratti di qualcosa di più generale».
I single che nei suoi romanzi conducono una vita più o meno solitaria nelle grandi città esistono in tutto il mondo.
«L’indipendenza è per me molto importante, ed è probabilmente una reazione a una cultura di gruppo come quella giapponese. È per questo motivo che i miei protagonisti non fanno mai parte di una comunità o di una compagnia. Sono sempre alla ricerca di qualcosa. Su questo punto mi rivolgo in particolare ai miei lettori giapponesi. Non è certamente un caso che i miei libri abbiano avuto un successo internazionale soltanto dopo il 1990. Con la caduta del muro di Berlino e lo sfaldamento dei grandi sistemi è emersa dappertutto una grande insicurezza. L’esigenza di una vita auto-determinata è diventata da allora sempre più impellente. E io credo che i miei libri stiano sviluppando dei modelli di persone veramente indipendenti».
Le donne dei suoi libri sono così belle e idealizzate che chi legge pensa che lei sia innamorato di tutte loro...
«Mi piacciono le donne forti. Come Aomame, l’eroina di "1Q84". Mi diverto molto di più a scrivere di una donna così che di un uomo. Il vicino di Aomame, Tengo, lo conosco benissimo: mi somiglia molto. So cosa fa e cosa sente. Con Aomame non è così: mettermi nei suoi panni è una sfida, la mia fantasia va sulle montagne russe. Però non potrei mai innamorarmi di un mio personaggio. Identificarmi, sì: io sono Aomame come Flaubert è Madame Bovary».
E cosa ci dice delle scene di sesso dei suoi libri: hanno fatto scandalo...
«Sono critiche che mi stupiscono. Io descrivo il sesso in una maniera molto pragmatica, realistica, ma mai pornografica. Per essere onesto non avrei nessuna voglia di scrivere quei brani. Sono molto timido: mi vergogno molto mentre scrivo quelle scene. Ma devo farlo. Il sesso è la via maestra per passare dall’altra parte. Il rapporto sessuale ha qualcosa di spirituale. Apre una porta simbolica. L’amore però è molto più bello del sesso. Io scrivo favole per adulti. Tutti vogliamo credere nella forza dell’amore. E a quella del dolore. Nella realtà non si prova l’uno senza l’altro. Ma quando leggi un libro improvvisamente pensi che quello che stai leggendo può succedere davvero. E proprio a te».
Traduzione di Guiomar Parada
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