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 2014  gennaio 31 Venerdì calendario

AIUTO, ANNEGHIAMO!


Le Marshall Islands sono destinate a sparire dalla faccia della Terra. Sommerse dall’Oceano Pacifico. Quando accadrà tutto questo? I pessimisti parlano di 50 anni da oggi. Quelli che vedono le cose con più moderazione parlano della fine del Ventunesimo secolo. Cambia assai poco, se alla fine pessimisti e prudenti giungono comunque alla conclusione che le isole saranno cancellate dalle mappe geografiche.
Le avvisaglie di quanto dovrebbe accadere sono già visibili in questo arcipelago formato da 38 atolli, abitato da 59 mila persone e con le acque territoriali che misurano due milioni di chilometri quadrati, una superficie equivalente a quella del Messico. Un paio di volte alla settimana la pista dell’aeroporto Amata Kabua e la strada che porta dallo scalo alla capitale Majuro finiscono sott’acqua perché è ormai chiaro che anno dopo anno l’oceano ha sopravanzato la terra e se ne è mangiata tanta che non basta più a mantenere all’asciutto l’impianto aeroportuale sette giorni su sette, giorno e notte. Un altro segno della tragedia prossima ventura? A maggio di quest’anno le autorità della capitale hanno dichiarato lo stato di emergenza perché il muro lungo cinque chilometri costruito per difendere la città quando la marea si fa più dura o durante il passaggio di violente perturbazioni rischiava di non tenere più di fronte alla pressione dell’oceano.
La ragione di tutto ciò? Il cambiamento del clima causato dalle emissioni che all’inizio del 2013 hanno fatto registrare il massimo storico di CO2 nell’atmosfera con 400 ppm (parti per milione) a fronte di un nuovo record di 36 miliardi di tonnellate di anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili e dalla produzione del cemento, con un incremento rispetto al 2012 del 2,1 per cento in barba agli impegni di tutte le conferenze sul clima che giurano di ridurre le emissioni. Se la temperatura del pianeta e dei suoi oceani sale, l’effetto immediato è l’innalzamento del livello del mare perché il volume dell’acqua aumenta man mano che questa si riscalda. Il contemporaneo scioglimento dei ghiacci delle due calotte artiche accelera il fenomeno: è come quando si versa acqua in un recipiente già pieno. Il livello sale.
Per l’area del Pacifico, poi, le previsioni dicono che l’innalzamento sarà doppio rispetto agli altri mari. «Per noi il cambiamento climatico non è più una questione ambientale o politica, ma di semplice sopravvivenza», ha detto Tony deBrun, ministro dell’Assistenza delle Marshall Islands: «La mia gente sta soffrendo, negli atolli del Nord patiscono la fame e la sete, qui al Sud siamo sommersi con sempre più frequenza dall’acqua di mare».
L’Oceano che ricopre la terra porta con sé problemi a cascata che da anni vengono elencati dai paesi membri del Aosis (Association of Small Islands States): Sono 39 nazioni sovrane del Pacifico, dei Caraibi, dell’Oceano Indiano - e tutti membri delle Nazioni Unite - che cercano di svegliare i governi dei paesi più sviluppati chiedendo di ridurre le emissioni e di aiutarli a limitare i danni anche fornendo loro tecnologia. Robert Guba Aisi, ambasciatore all’Onu di Papua New Guinea, racconta a "l’Espresso" perché la crescita del livello del mare è solo l’innesco di una serie infinita di problemi: «L’acqua che avanza porta con sé malattie come la malaria perché la vegetazione costiera viene distrutta, aumentano i problemi di tipo alimentare, le riserve naturali di acqua potabile diventano inservibili perché l’acqua salata le contamina. Problema dopo problema si arriva fino all’aumento delle assicurazioni per tutto ciò che si trova in prossimità delle coste». L’ambasciatore Aisi mette in guardia chi non vive negli atolli del Pacifico: «Quest’ultimo fenomeno riguarda tutti, basta vedere quanto è avvenuto nel mondo assicurativo dopo l’uragano Sandy lungo le coste del New Jersey e di New York. Dopo la tempesta, i prezzi assicurativi sono impazziti».
L’allarme non suona solo per le Marshall Islands. Nella stessa situazione si trovano l’isola di Tuvalu, a metà strada tra le Hawaii e l’Australia, e l’arcipelago di Kiribati, 35 atolli sparsi in una porzione di Oceano di un milione e 350 mila chilometri quadrati, un po’ meno di Italia, Francia e Spagna messe insieme. Sono tutti Stati-nazione piccoli, abbastanza poveri, ma nella stessa condizione di pericolo si sentono anche paesi ricchi e avanzati come Singapore, uno dei membri più attivi dell’Aosis.
Marcele Moses è l’ambasciatrice presso l’Onu di Nauru, isola di 21 chilometri quadrati con 10 mila abitanti e Stato sovrano: «L’umanità sembra non voler aprire gli occhi di fronte a quello che sta avvenendo. Se non si prendono provvedimenti immediati, chiari e vincolanti per tutti, prima toccherà a noi, ma poi tutti i paesi che si affacciano sui mari seguiranno la stessa sorte, vedranno le loro terre mangiate dal mare e le città costiere in pericolo. Toccherà anche all’Italia e forse proprio per questa ragione il vostro Paese è uno dei più sensibili alla nostra causa». La Moses racconta anche che a Nauru i cambiamenti climatici oggi significano siccità totale, neanche una pioggia negli ultimi sei mesi, l’oceano che si impoverisce per la pesca senza controlli, l’obbligo di andare sempre più a fondo per trovare il cibo che cresceva e viveva sulla barriera corallina.
Due anni fa, un gruppo di scienziati provenienti da vari paesi ha messo a punto l’Indice di Salute degli Oceani, il risultato dell’analisi di vari elementi che vanno dalla quantità di acidi e di CO2 presente nelle acque, alla quantità di pesce, all’impatto del turismo a quello della pesca: il voto più basso è stato assegnato al mare che bagna la Sierra Leone (36), il migliore all’isola disabitata di Jarvis nella area del Pacifico che circonda le Hawai (86). «Ogni volta che torno a Palau, c’è meno pesce e più plastica nell’acqua», racconta Stuart Beck, avvocato newyorkese che ha rappresentato questa piccola isola del Pacifico alle Nazioni Unite e oggi è l’inviato del governo di Palau per gli oceani ed i mari. Beck è stato il primo ambasciatore di Palau perché nel 1977, fresco di studi in legge alle Università di Harvard e di Yale fu chiamato dall’allora leadeship indipendentista dell’isola per aiutarla a ottenere l’indipendenza (era un protettorato degli Stati Uniti). Ci riuscì nel 1980, ma la piena sovranità arrivò solo nel 1994.
L’ambasciatore Beck è perfettamente consapevole che la battaglia delle piccole isole è difficile e gli avversari sono più forti perché spesso «i pubblici interessi vengono dopo gli interessi dei singoli». Così pensa che il terreno di battaglia vada spostato dalla richiesta pura e semplice di ridurre le emissioni di CO2, argomento al quale si risponde sempre in modo contraddittorio e titubante da parte di nazioni sviluppate e paesi che adesso stanno uscendo dall’arretratezza e non vogliono rinunciare a percentuali di crescita del Pil, ad un fronte che metta insieme tre obiettivi: il miglioramento della salute degli oceani, la ricostituzione degli stock di pesce, gli aiuti per scongiurare il prevalere degli oceani. «Se siamo stati capaci di ridurre l’Aids del 40 per cento, dovremo pur essere in grado di ricostituire le riserve di pesce del 40 per cento nello stesso periodo di tempo», è la riflessione dell’ambasciatore Beck: «Inoltre è tempo di farla finita con questo modo di procedere, da un vertice all’altro dicendo che ci sono negoziati in corso. Se durano 22 anni senza arrivare a un punto fermo non si può parlare di negoziati ma solo di presa in giro».
Sono tanti i rappresentanti delle isole che si sentono snobbati dai potenti della Terra. «Con noi Cina, Russia, Giappone, Stati Uniti usano la diplomazia del jackpot: se hanno bisogno del nostro voto per qualcosa, ci corteggiano singolarmente, fanno delle promesse e una volta ottenuto il risultato scompaiono», ricorda Beck. Il rappresentante di Papua Guinea invece è convinto che le relazioni bilaterali qualche volta funzionino meglio, soprattutto con i paesi più interessati al loro destino, e tra questi mette l’Italia. «Noi sappiamo ascoltare i problemi degli altri e per questo troviamo la porta sempre aperta alle nostre iniziative e ai progetti che portano la nostra tecnologia», sostiene Sebastiano Cardi, ambasciatore italiano presso l’Onu. Allo studio o in fase esecutiva ci sono piccoli progetti ma essenziali per la vita in alcune isole: impianti per la produzione di energia solare, come la costruzione di cisterne per l’acqua piovana. In futuro potrebbero prendere piede iniziative più grandi che hanno al centro il gruppo Finmeccanica: dall’uso di una rete di satelliti-radar di Telespazio per controllare le acque e i fenomeni meteo nelle aree più a rischio, all’utilizzo di droni per controllare l’oceano intorno alle isole che vivono essenzialmente di diritti di pesca ceduti ai grandi paesi consumatori (l’isola di Palau e Telespazio firmeranno il 5 febbraio un memorandum di collaborazione).
Sino a oggi le isole che vedono minacciata la propria integrità e sopravvivenza dai cambiamenti del clima hanno lamentato che le parole non sono mai state seguite da atti concreti. L’ultima prova l’hanno avuta a novembre a Varsavia dove si è svolta l’ennesima conferenza Onu sul clima. Non c’è stato alcun accordo sulla riduzione delle emissioni e chi era lì a rappresentare l’Aosis ha sentito fare da rappresentanti degli Stati Uniti e dell’Unione europea discorsi del tipo «o cambiate atteggiamento e non fate richieste esorbitanti o rischiate di perdere anche quel poco che è stato stanziato a vostro favore».
Così, la speranza è riposta solo nella capacità di fare lobbying all’Onu. Se le isole si muovono insieme possono spostare l’ago della bilancia a loro favore perché pur rappresentando in termini di popolazione e prodotto interno lordo rispettivamente lo 0,8 e lo 0,75 per cento del mondo, quando arriva il momento di votare in assemblea generale i 39 membri Aosis rappresentano il 20 per cento dei voti validi. Un passaggio chiave sarà il prossimo 23 settembre quando nel palazzo di vetro si aprirà il vertice speciale convocato dal segretario generale Ban Ki-moon sui cambiamenti climatici. Sarà una occasione nella quale Ban Ki-moon non chiederà l’inizio di un nuovo negoziato ma impegni precisi sul cambiamento climatico, specie a coloro che sono maggiormente coinvolti. Quel giorno le isole che rischiano di scomparire faranno sentire la loro voce.