Danilo Taino, Sette 31/01/2014, 31 gennaio 2014
«GLI ANTI-EUROPEI FALLIRANNO. E L’ITALIA HA UN RUOLO CHIAVE»
In Italia, Martin Schulz è conosciuto soprattutto per la polemica che nel luglio 2003 ebbe al Parlamento europeo con Silvio Berlusconi, che lo definì un kapò. Dalle prossime settimane sarà conosciuto per qualcosa di più denso: sarà il candidato dei partiti socialisti europei alla presidenza della Commissione di Bruxelles dopo le elezioni per il Parlamento di Strasburgo di maggio. Il Trattato di Lisbona, infatti, ha stabilito che dal prossimo mandato il presidente dell’organo esecutivo dell’Unione europea sia eletto dal Parlamento – su suggerimento del Consiglio europeo – sulla base delle maggioranze politiche uscite dalle elezioni: i socialisti, dunque, hanno deciso di condurre la campagna elettorale con un candidato unico dichiarato, Schulz appunto. Anche come base programmatica, il politico tedesco ha scritto un libro – Il gigante incatenato, Fazi Editore – da ieri, 30 gennaio, nelle librerie italiane. In questa intervista, raccolta nel suo ufficio di presidente del Parlamento, a Bruxelles, ne parla, come parla dei movimenti anti-Ue, dell’importanza dell’Italia per l’Europa, della Germania e di parecchio altro.
Alcuni sondaggi dicono che alle elezioni del prossimo maggio i partiti anti-Ue potrebbero raccogliere il 25-30% dei voti. Il che creerebbe seri problemi a voi socialisti, ai popolari, ai liberali e ai verdi, cioè alle formazioni tradizionali.
«No, non ho paura degli anti-europei. Certo, diventeranno più forti. Ma io cerco di trasformare le elezioni in vere elezioni europee: in quanto candidato alla presidenza della prossima Commissione presenterò le mie proposte in tutti i Paesi della Ue. E chiederò agli elettori di non sprecare il loro voto con scelte ristrette, perché queste saranno finalmente elezioni di portata veramente europea. Dirò che è importante perché l’Europa ha bisogno di cambiare molto, quasi tutto. Se questo messaggio passerà, gli euroscettici falliranno».
Ciò nonostante, i sondaggi…
«I sondaggisti sono in errore. Fanno calcoli nazionali. Ma il fatto che Marine Le Pen possa prendere il 25% dei voti in Francia non significa che gli anti-Ue prendano il 25% nel Parlamento europeo. Arriveranno a 120-130 seggi, che è il 15% del totale».
Come vi muoverete voi socialisti europei?
«Al congresso che terremo il 1° marzo presenteremo il programma comune, fondato su giustizia sociale, occupazione, regolazione dei mercati finanziari, problemi del credito. E lì verrò nominato ufficialmente candidato di tutti i socialisti europei per la presidenza della Commissione Ue: gran parte dei partiti nazionali ha già dato il via libera, compreso il Partito Democratico italiano che lo ha fatto pur non essendo ancora ufficialmente parte dei socialisti europei. E voglio sottolineare che il congresso di inizio marzo si terrà a Roma».
Sottolineare perché?
«Per un tedesco come me è di grande importanza. Ed è importante per tutti gli europei. Insieme a Germania, Francia e Benelux, l’Italia è uno dei fondatori dell’Europa. E, nonostante Berlusconi, rimane una pietra angolare della Ue».
In realtà, da parecchi anni i rapporti politici tra partiti italiani e partiti tedeschi si sono piuttosto raffreddati.
«Il rapporto tra noi socialdemocratici tedeschi e il Pd è forte. È vero che si è indebolito quello tra i popolari: un tempo la relazione tra la Cdu tedesca e la Dc italiana era fortissima. Come lo è sempre stata quella tra la Spd e la sinistra italiana. Abbiamo avuto un ruolo di leader in Europa. E l’impatto del pensiero politico dei partiti italiani sull’Europa è stato considerevole. Su di me, per esempio, ha avuto un’influenza forte Giorgio Napolitano, in particolare sul come reagire all’iniziale rifiuto elettorale del Trattato di Lisbona».
Per restare in Italia, come vede il governo Letta?
«Penso che Enrico Letta abbia una personalità affascinante. Non è l’italiano classico dello stereotipo: è essenziale, preciso, focalizzato, convincente. Una sorpresa, devo dire. È di fronte a una sfida enorme: per quel che ha fatto e per quello che fa ha bisogno di sostegno. Lo ammiro per il suo impegno».
Renzi?
«È un sindaco che è esattamente come un sindaco dev’essere. È convincente perché in pubblico è uguale a come si presenta personalmente. È autentico».
L’Italia avrà la presidenza semestrale della Ue nella seconda metà del 2014, da luglio. C’è chi dice che sarà vuota, anche perché le istituzioni europee saranno in scadenza o scadute, da rinnovare: si discuterà di poltrone e non di politiche. È così?
«È vero il contrario. Ci saranno molte scelte da fare e l’Italia sarà di fronte alla sfida di gestire un passaggio estremamente importante per il futuro della Ue. Dovrà mettersi subito a lavorare. Una volta insediati gli eletti delle elezioni di maggio, in luglio il Parlamento europeo si riunirà e tra le prime cose dovrà eleggere il presidente della Commissione. Poi si tratterà i stabilire i programmi della Commissione, gli obiettivi: qui, il Paese che ha la presidenza di turno avrà un grande ruolo. Direi che, dal punto di vista dell’influenza che si può avere, è un vantaggio essere alla guida in un passaggio del genere. In più, la presidenza italiana sarà di fronte al fatto che il presidente del Consiglio europeo (Herman Van Rompuy, ndr) e l’alta rappresentante per la Politica estera (Catherine Ashton, ndr) saranno a fine mandato e poi dimissionari (dal 1° dicembre, ndr). Avrà un ruolo importante».
Veniamo alla sua Germania. Certe volte si ha l’impressione che una parte dell’establishment tedesco, soprattutto tra gli industriali che esportano, veda l’Europa più come una palla a piede che come un’opportunità. Che si sentirebbero più forti e liberi di dedicarsi ai mercati emergenti, alla Cina, alla Russia, al Sudamerica, all’Africa, senza i vincoli europei.
«Non posso escludere che qualcuno di loro la pensi in questo modo. Ma è sicuramente in estrema minoranza. Le posso garantire che, per esempio, che tutti gli amministratori delegati dei gruppi automobilistici tedeschi non sono nemmeno sfiorati da idee del genere».
La loro attenzione – e a dire il vero anche quella del governo – nei confronti dei Paesi emergenti è però fortissima.
«Non c’è dubbio che siano mercati importanti. Ed è vero che il 30% del Prodotto lordo tedesco viene dalle esportazioni. Ma di queste esportazioni il 60% va nei Paesi del mercato unico europeo. Per noi il mercato della Ue è essenziale, su questo nessuno ha dei dubbi. Per le imprese tedesche piccole e medie, che sono il cuore del sistema produttivo, questa dell’Europa è la dimensione vitale. Ma lo stesso è vero per i grandi gruppi. No, la Germania ha il futuro nell’Eurozona. Tra l’altro, una rottura dell’euro e un ritorno al marco sarebbe un evento pessimo: la nuova valuta tedesca si rafforzerebbe e le esportazioni cadrebbero».
Veniamo allora all’euro. Nel libro Il gigante incatenato lei parla di Europa come idea di unità dei popoli. Non le pare che, al contrario, la moneta unica abbia creato divisioni, litigi?
«Non è stato l’euro a creare divisioni. È il sistema politico che le ha create. Negli Stati Uniti c’è un’area economica comune, una moneta comune, un sistema di governo comune. Da noi la moneta unica deve convivere con 18 diversi governi: dobbiamo dunque trasformare la politica. L’euro è ormai una moneta forte: nel corso della crisi di questi ultimi anni la Banca centrale europea, con i suoi interventi, lo ha salvato dal pericolo di una rottura. Ora questo rischio è superato. La situazione resta però fragile, occorrono passi avanti sul versante politico».
Lei è stato critico su come si sta realizzando l’Unione bancaria europea, che dovrebbe diventare uno degli assi portanti dell’Eurozona. Non le pare di essere ingeneroso con i governi, che l’hanno decisa? Chi avrebbe detto un anno fa che avremmo avuto un supervisore bancario unico europeo, la Bce, e un sistema di risoluzione delle crisi?
«L’Unione bancaria ha una dimensione paragonabile a quella del mercato unico, in quanto a importanza. Il fatto che persino i tedeschi abbiano accettato la soluzione europea è un risultato non da poco. Nel complesso si tratta di un progresso enorme. Nello stesso tempo, però, devo dire che non abbiamo il necessario sistema di intervento europeo nel caso di crisi, troppo è lasciato alle autorità nazionali. E questo può essere un problema serio».
Nel libro, lei parla molto di unione dell’Europa come presupposto di pace. Perché? Non ci sono timori di guerra.
«Non c’è alcun rischio di guerra. Cent’anni fa, nel 1914, però, nessuno pensava che potesse scoppiare un conflitto. Ma i leader politici ragionavano solo attraverso il loro interesse e attraverso punti di vista nazionali. Tra Paesi non ci si parlava: ognuno agiva sulla base di presunzioni circa le intenzioni altrui. C’era solo nazionalismo. È qualcosa che vediamo anche oggi. Fino a un po’ di tempo fa si veniva a Bruxelles e si diceva “noi europei”. Ora si viene soprattutto per difendere il punto di vista nazionale. È un atteggiamento da cambiare: anche alla luce di quel che successe un secolo fa».