Antonio D’Orrico, Sette 31/01/2014, 31 gennaio 2014
ALBERTO TOMBA NON VADO PIÙ A SCIARE, MI METTE TRISTEZZA. PERÒ TORNO SULLA NEVE E FARÒ IL BELLO DELLA DIRETTA ALLE OLIMPIADI
A 22 anni non ancora compiuti Alberto Tomba vinse due medaglie d’oro alle Olimpiadi di Calgary. A 26 anni un oro e un argento alle Olimpiadi di Albertville. A 28 anni un argento alle Olimpiadi di Lillehammer. Quando ne aveva 39 corse voce di un suo clamoroso ritorno allo sci (aveva smesso nel 1998) per le Olimpiadi di Torino. Non se ne fece nulla. Ma stavolta Tomba alle Olimpiadi ci torna. Lo fa come commentatore principe (il bello della diretta) della lunga maratona che Sky dedica ai Giochi di Sochi.
In questi giorni il palazzo di Sky a Santa Giulia sembra un posto dove sta per decollare un’astronave, c’è perfino un display all’ingresso con il conto alla rovescia dei giorni, le ore, i minuti che mancano all’inizio delle Olimpiadi. L’appuntamento con Tomba è al settimo piano, in un ufficio dove spicca una gigantografia di José Altafini (nell’intramontabile format delle figurine Panini). Tomba è vestito di nero, la camicia portata fuori dai pantaloni (d’inverno mette sempre su qualche chilo). Ci sediamo, accendo il registratore e Tomba avvicina la bocca al microfono e dice: «C’era una volta». La formula magica con cui comincia ogni storia. Ecco la sua.
Per prepararmi a questa intervista ho visto i filmati delle sue imprese e, anche se lo sci non è uno dei miei sport preferiti, alla fine mi sono emozionato davanti alle sue vittorie, alle sue esaltanti rimonte tra prima e seconda manche. Lei li guarda ancora i video delle sue gare?
«Li rivedo a casa quando ci sono gli amici o quelli del fan club. Stiamo in taverna e accendo. Vedo le Olimpiadi, i Mondiali di Sierra Nevada e, alla fine, sì, ti commuovi. Tornare indietro a rivedere le vittorie non è triste, è bello».
C’è anche, e non pensavo che esistesse, il filmato della sua prima vittoria, alla Montagnetta di San Siro, la gara di parallelo (con i due sciatori che scendevano fianco a fianco) che si correva a Milano.
«Esattamente trent’anni fa, 23 dicembre 1984».
Era un ragazzo.
«Un pischellino».
Un pischellino che li batté tutti. Sembra un racconto di Natale quel filmato: i campioni della Nazionale italiana di sci sconfitti, a uno a uno, come nel romanzo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, da un giovanottino della squadra B.
«Mi ricordo che avevo appena compiuto diciott’anni. Può immaginare che evento, che roba. Nella squadra A mi ricordo che c’erano Edalini, Tonazzi e Robert Erlacher che era il campione contro il quale vinsi in finale. Grande giornata, portavo il numero 9 sul pettorale».
Lei è maniaco dei numeri. Contano davvero così tanto?
«Sì, il numero è bestiale, perché ho iniziato col numero 9 quel parallelo a San Siro e ho finito col numero 9 a Crans Montana nel 1998. I miei numeri sono quelli dispari. L’uno, il tre, il sette, il nove, l’undici».
E i numeri pari?
«Non sono buoni. Fa eccezione solo il 6».
Poi c’era un altro rito propiziatorio: lei si lasciava la barba lunga alla prima manche e poi se la tagliava alla seconda. Perché?
«Per svegliarmi un po’, per cambiare look, immagine. Ai Mondiali di Sestriere 1997 stavo malissimo, non volevo fare la seconda manche. Hanno insistito. “Vai esci, Alberto”. Avevo 38, 39 di febbre. Allora ho cambiato la tuta, gli scarponi, mi sono fatto la barba, sono tornato nuovo, anche se continuavo a non stare bene. Mi sono caricato, e sono arrivato terzo da settimo che ero, conquistando il bronzo».
E ha avuto qualcosa di rituale anche la fine della sua carriera: lei ha chiuso a Crans Montana dove aveva vinto il primo bronzo ai Mondiali 1987. Secondo molti, però, lei avrebbe potuto continuare e vincere ancora. È così?
«Avrei potuto fare un break di due anni e poi ricominciare ma al momento ero stanco, stressato».
Stanco dello sci o di altro?
«Di ogni cosa. Tutta quella gente che mi stava dietro. Non potevo muovermi. Dal 1996 in poi fu il delirio. Non riuscivo a essere tranquillo, sereno. Avevo tutti contro, persone che volevano farsi grandi alle mie spalle. E così finì a fischi e a fiaschi».
Fischi e fiaschi?
«Mi riferisco al fisco, alla storia delle tasse non pagate. Gestire quelle cose a vent’anni non è facile, non c’era il papà dietro. Un atleta di qualcuno deve potersi fidare. Mi sono fidato e amen. Io vincevo perché non stavo in ufficio, non seguivo la parte commerciale, seguivo la parte tecnica. I calciatori, i golfisti, i tennisti sono più professionisti degli sciatori, seguono il loro guadagno. Secondo me, per un atleta questo non va bene, deve scindere le due cose. Ci dev’essere qualcuno che ci pensa, tu devi pensare allo sport».
Un’altra delle sue caratteristiche era quella di fare le dichiarazioni prima della gara annunciando che avrebbe vinto. In questo mi ricorda la spavalderia di un altro campione, Muhammad Ali.
«Oddio, nello sci non puoi fare nessun programma perché conta moltissimo la fortuna. Io non facevo nessun proclama, dicevo semplicemente: “Oggi mi sento forte”. Non dicevo: “Ho già vinto”. Erano i giornalisti che esageravano per far venire fuori il personaggio. In realtà, certe cose succedevano perché ero bolognese».
In che senso?
«Nel senso che ero un cittadino e gli altri sciatori erano gente di montagna, introversi, silenziosi, spesso cupi. Io giocavo, scherzavo ma spesso venivo frainteso. C’era sempre chi notava e faceva notare qualcosa. Dicevano che Marc Girardelli era andato a letto alle nove di sera mentre io alle nove di mattina ero tornato da qualche notte brava. Sempre questa storia delle donne. Se fossi andato a ragazze tutto il tempo come pensavano, non avrei vinto così tanto. “Le notti di Tomba, le notti di Tomba”, erano fissati. Come se non ci fossero anche i pomeriggi. Secondo me, dipendeva dal fatto che ero di città, che avevo la carnagione più scura, che sui capelli mi mettevo il gel. Ero diverso dal montanaro biondo, occhi azzurri. Per alcuni ero un marocchino. Mi chiamavano Scipione l’Africano, mi dicevano mafioso, terún».
Terún uno di Bologna? Stiamo freschi. Passiamo ad altro, lei ha combattuto contro i regolamenti sbagliati, il sistema sciistico, il gruppo di potere austro-elvetico che era al vertice della federazione mondiale. Questa sua battaglia mi ricorda quella di Maradona contro l’establishment del calcio.
«I grandi dello sport dicono la loro anche se poi quello che dicono viene sempre travisato. Pensano che lo facciamo per protagonismo. Non è così. Se uno ha un’idea buona perché non proporla? Per esempio, perché bisogna fare le gare di sci alle nove di mattina quando fuori c’è meno trenta gradi? Ma per favore. Io dicevo: possiamo fare la prima gara alle undici o a mezzogiorno, e la seconda alle due? Rispondevano che lo dicevo perché mi piaceva alzarmi tardi. Un’altra follia. Prima il calendario prevedeva che si faceva una gara in Svizzera, un’altra in Austria e poi tornavi in Svizzera. Adesso hanno deciso di fare insieme le due tappe svizzere come proponevo io. Ci voleva tanto a capirlo? Era tutta qui la mia ribellione».
Tomba, in questo momento mi è venuto un terribile sospetto: ma a lei la neve piaceva?
«Eeeh, piacere, piacere. Quando ho cominciato a capire che vita mi aspettava non è stato facile. Mio fratello infatti ha salutato: “Grazie papà, ciao Alberto, buona fortuna”, perché si è reso conto dei sacrifici, dei freddi, degli orari. Lui non aveva grinta, però aveva più stile di me. La grinta è importante. Io qualsiasi sport facevo ci mettevo l’anima».
In un vecchio best seller danese che si intitolava Il senso di Smilla per la neve l’autore raccontava che nella sua lingua ci sono tante parole diverse per indicare e definire i vari tipi di neve. Di neve, non ce n’è una sola. Me lo conferma?
«In Giappone la neve variava tanto, anche a Sochi è così. Era un po’ come da noi in Appennino. La neve cambia in base ai venti e alla temperatura. C’è la neve da föhn, c’è la neve di quando fa meno venti. Quel libro ha ragione: le nevi sono tante. C’è la paciocca, per esempio, c’è la gessosa, quando è freddo, che fa knick knick a camminarci sopra».
Ma mi sembra che lei ami più il mare della montagna. Mi hanno detto che è un provetto e spericolato tuffatore.
«Mi piace tuffarmi, anche da una certa altezza. Ma anche il mare per me, che vuole è stata la mia vita, è legato allo sci. Da piccolini mio padre portava me e mio fratello all’Elba e quando il mare era un olio ci faceva fare delle grandi sciate col gommone. Papà ci faceva correre anche in moto. Ho fatto tanto motocross. Ed ero spericolato anche lì. Se lo ricorda che dicevano che ero un fifone perché non facevo la discesa libera ma solo il gigante e lo slalom? Era una balla. A me piace rischiare. Nel motocross facevo cose pazzesche e al mare mi tuffavo da dieci metri d’altezza. E poi di colpo sono diventato un coniglio col terrore della discesa libera? Non è nemmeno vero che era la mia mamma a proibirmi di fare le discese perché aveva paura che mi facessi male (come scrivevano i giornalisti accusandomi di essere mammone). Il motivo era un altro. Preferivo vincere in gigante e slalom e non rischiare nelle discese a 120, 140 km all’ora dove basta un po’ di nebbia, un cambiamento improvviso del tempo e vai a schiantarti mandando all’aria la stagione».
Ma se l’avesse disputata sarebbe stato il più grande anche nella discesa?
«Sì. I salti a centoventi all’ora mi piacevano da matti».
Ho visto una classifica che diceva che i più grandi del mondo siete stati lei, Stenmark e Hermann Maier. Lei è il terzo della storia dopo Stenmark e Maier, le va bene come classifica?
«Se si tiene conto dell’immagine e della popolarità, mi metto primo io. Se si guarda al numero di gare, il primo è Stenmark. Se uno guarda al fisico, il numero uno è Maier. Però il suo è un fisico costruito, il fisico di uno che ha lavorato tanto sui muscoli. Maier è come Ivan Drago, il pugile avversario di Rocky Balboa. Non è un atleta naturale ma artificiale».
A proposito di fisico, Mario Cotelli, il direttore tecnico della Valanga Azzurra, scrisse che il segreto della sua forza dipendeva da una combinazione straordinaria: lei ha un fisico statuario e piedi da ballerina che le davano una sensibilità particolare mentre sciava.
«Effettivamente ho i piedi piccoli. Porto il numero 43, gli altri sciatori avevano numeri tipo il 47».
Il mondo dello sci fu cambiato molto dal fenomeno Tomba. Fu come quando nel tennis si passò dalle magliette e dai calzoncini rigorosamente bianchi a quelli colorati, si passò dal silenzio quasi religioso degli spettatori al tifo da stadio. Lei trasformò il convento dello sci in un circo, in un’arena, diede a quel mondo quasi penitenziale, eremitico, un glamour di spettacolare, lo fece passare dai cori alpini al rock and roll. Però ho l’impressione che da quando lei ha smesso lo sci è tornato indietro.
«Ha ragione, parlano i numeri, le statistiche. Se oggi a vedere una gara vanno in quattromila, ai miei tempi venivano in quarantamila. Se oggi ci sono quattro giornalisti a bordo pista, quando correvo io ce n’erano quaranta. Con me e con Deborah Compagnoni (non dimentichiamola) lo sci ha avuto una popolarità che poi non ha più avuto. Erano i bei tempi quando in Italia portavo via le pagine dei giornali al calcio, una cosa mai vista, i bei tempi quando la Rai interruppe addirittura il festival di Sanremo per seguire in diretta la mia gara alle Olimpiadi di Calgary. Cosa mai accaduta e che, forse, non accadrà mai più».
Lei fece diventare lo sci nazionalpopolare.
«E, infatti, ci fu l’amore e l’odio. L’amore per le medaglie che vincevo (e per come le vincevo) e l’odio per il mio carattere, il mio stile di vita, le Ferrari, le discoteche, le tasse. Ma io li capisco i giornalisti, vincevo sempre quindi non facevo più notizia e allora per movimentare un po’ la situazione si attaccavano a tutto e attaccavano me. Sono stato esaltato, condannato, osannato, criticato. Eppure non ho mai fatto repliche o smentite anche se su di me è stato scritto di tutto. Ho lasciato correre e così gli italiani di oggi credono ancora a quello che fu scritto allora, all’immagine che mi hanno confezionato. Latin lover. E che vuol dire? Sono di Bologna, guidavo la Ferrari, avevo Miss Italia al mio fianco, mi piacciono le tagliatelle. Che devo fare? Mi devo ammazzare? Cosa c’è di male? Il fatto è che avrei dovuto girare non con la guardia del corpo ma con l’avvocato, un avvocato che stesse attento a che qualcuno non facesse il furbo. Magari un avvocato commercialista. La sa la verità? È che fa più notizia il funerale del matrimonio».
Se vogliamo parlare male dei giornalisti mi offro volontario. Però c’erano anche dei giornalisti che la adoravano, penso ai pezzi bellissimi su di lei di Leonardo Coen. E anche se a volte la prendevano in giro lo facevano in maniera garbata come il mio ex compagno di banco Cesare Fiumi, autore di un pezzo d’antologia che cominciava così: “All’inizio era soprattutto il verbo, che non sempre l’atleta coniugava col soggetto”. E, se mi permette l’autocitazione, io stesso una volta ho scritto che certe volte lei ricordava i carabinieri delle barzellette (quelli per cui stampano la parola “Carabinieri” sulla fiancata della macchina perché se no, invece di entrare dalle portiere, entrano dal portabagagli), e perciò si era fidanzato con Martina Colombari perché lei portava la fascia con sopra scritto Miss Italia.
«E si sbagliava. Martina mi piacque subito perché era romagnola non perché era Miss Italia. Questa è la pura verità. La nostra è stata una coppia di cui si è straparlato, ancora oggi se ne parla. E, comunque sia, alla fine uno si stanca di sentire certi aggettivi che mi sono stati affibbiati per anni: guascone, gasato, montato. Adesso dicono che sono diventato un cinghiale, un baule. E, invece, no. Mi guardi. Sono ancora in forma e sono sedici anni che ho smesso di fare attività agonistica».
È vero che lei non ha fatto più una sciata come si deve da quando si è ritirato?
«È vero».
E come mai?
«Mia madre dice sempre che a tornare indietro ti commuovi, ti rattristi perché i momenti belli sono passati. Non voglio tornare indietro a rivangare».
La prego di tornare indietro solo un attimo. È vero che il momento più brutto era quello della partenza, quando si sta fermi ai cancelletti, come si dice in gergo?
«Non c’è nulla di più terribile. Sei da solo, c’è il countdown, sai che tocca a te, hai nelle orecchie il suono, tuuu, tuuu, tuuu, che scandisce i secondi che mancano, hai in faccia le telecamere, hai di fianco i cronometristi, hai dietro gli allenatori, poi c’è l’urlo della folla. Dopo, quando finalmente parti, l’adrenalina si scarica tutta d’un colpo ma fino a un momento prima no no no, ti senti morire, hai davanti un burrone e ti devi buttare. Quelli che ti vedono seduti a casa davanti alla tv non hanno idea del freddo che fa, del gelo che senti».