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 2014  gennaio 31 Venerdì calendario

KEYNES, IL «CORRIERE» E L’OMBRA DI MUSSOLINI


Il padre del New Deal bocciato dal fascismo
Sulla storica collaborazione di Keynes con il «Corriere», e dopo aver ricevuto l’intervento di Giorgio La Malfa che pubblichiamo a fianco, posso dare qualche ulteriore notizia. Grazie al successo delle Conseguenze economiche della pace , l’economista inglese divenne un eccellente amministratore della propria popolarità e offrì i suoi articoli ad alcuni fra i maggiori giornali europei e americani. Per il «Corriere», in particolare, mandò corrispondenze dalla conferenza economica di Genova dell’aprile 1922, a cui partecipava come consulente del governo britannico. Luigi Albertini apprezzava i suoi articoli e considerava l’autore un buon «liberista», ma Luigi Einaudi aveva riserve che manifestò in alcune circostanze. Dei due, come divenne sempre più chiaro col passare del tempo, il vero liberista era Einaudi, a cui non piacque la teoria keynesiana del deficit spending , vale a dire l’uso generoso della spesa pubblica per rilanciare la crescita dell’economia senza troppe preoccupazioni per il disavanzo.
Mussolini, invece, diffidava di Keynes per le sue posizioni troppo filotedesche, in un momento in cui l’Italia non intendeva rinunciare al pagamento delle riparazioni. In un articolo apparso sul «Popolo d’Italia» del 1° ottobre 1922, lo definì il rappresentante del «pacifismo germanofilo inglese»: era convinto che la Gran Bretagna volesse soprattutto ridurre la propria disoccupazione (due milioni) grazie a una maggiore crescita economica, e che fosse disposta a chiudere un occhio sulle riparazioni richieste alla Germania pur di favorire la ripresa della sua industria. È possibile che queste considerazioni abbiano influenzato le sue reazioni all’articolo di Sraffa citato da La Malfa quando divenne presidente del Consiglio, ma la sfuriata di Ludovico Toeplitz, amministratore delegato della Banca Commerciale, sembra dimostrare che Mussolini, sia pure con il suo stile, era allora sulle stesse posizioni delle banche italiane.
Nella storia dei rapporti fra Keynes e il «Corriere» esiste un secondo atto molto interessante. Come ricordato da «Sette» nel suo numero del 6 dicembre dell’anno scorso, Keynes riprese i contatti con il «Corriere» nel dicembre 1933 per proporre un articolo sulla politica economica e monetaria di Franklin D. Roosevelt, eletto alla Casa Bianca nel novembre del 1932. Il «Corriere» rispose di non potere accettare l’offerta perché aveva «formali impegni in questo campo con i collaboratori abituali». Ma è probabile che il motivo del rifiuto fosse la linea anti-Keynes che il giornale aveva assunto con l’articolo di un altro collaboratore: Alberto De Stefani, liberista e ministro delle Finanze del primo governo Mussolini, dal 1922 al 1925. Prima della conferenza economica che si tenne a Londra nel giugno del 1933 per studiare una reazione alla grande recessione provocata dalla crisi del 1929, Keynes aveva avanzato una proposta che ricorda per certi aspetti la politica della Federal Reserve dopo il fallimento di Lehman Brothers. Un organismo internazionale avrebbe emesso certificati d’oro con corso legale nei Paesi interessati dalla crisi e i certificati sarebbero stati distribuiti ai singoli Paesi sulla base della loro rispettiva importanza economica. Gli interessi sul prestito sarebbero stati «tenui» e i certificati sarebbero stati ritirati a mano a mano che i prezzi avessero ricominciato a salire. Questa iniezione di denaro nell’economia, secondo Keynes, avrebbe permesso ai governi di rilanciare la crescita con un grande piano di opere pubbliche. Era chiaro, secondo De Stefani, che l’economista inglese voleva provocare inflazione con una politica di deficit spending e risanare l’economia mondiale «non sulla base di una riduzione dei costi di produzione (salari), ma sulla base di un aumento dei prezzi». Il «Corriere» non sapeva allora come Keynes avrebbe giudicato la politica economica e monetaria di Roosevelt, ma non voleva dare spazio, probabilmente, a teorie economiche che uno dei suoi maggiori collaboratori considerava pericolosamente eterodosse.
In realtà l’articolo proposto da Keynes era la «lettera aperta al presidente Roosevelt» che sarebbe apparsa sul «New York Times» del 31 dicembre 1933. In quella lettera Keynes vide nel New Deal (che il presidente americano aveva lanciato sin dai primi cento giorni della sua presidenza), la realizzazione del suo grande disegno e scrisse: «Se lei avrà successo, metodi nuovi e più audaci verranno sperimentati ovunque e noi potremo datare dal suo avvento al potere il primo capitolo di una nuova era economica».
Keynes non aveva torto, anche se la sua ricetta piacque a regimi autoritari, o poco inclini allo sviluppo dei traffici internazionali, piuttosto che a Stati democratici e liberali. Un anno dopo, quando un giovanissimo editore torinese, Giulio Einaudi, iniziò la sua carriera con la pubblicazione di un libro sul New Deal, Mussolini lo recensì calorosamente sulle colonne del «Popolo d’Italia». Il libro s’intitolava Che cosa vuole l’America? ed era opera di Henry Wallace, collaboratore di Roosevelt e segretario all’Agricoltura. Wallace sosteneva la necessità di un grande piano economico per regolare quote di produzione, prezzi e salari con la collaborazione di tutte le categorie produttive.
Mussolini ne fu entusiasta e scrisse: «Il Wallace dice cooperazione. Ma egli intende corporazione. Il suo libro è “corporativo”. Le sue soluzioni sono corporative. Questo libro è un atto di fede, ma anche una requisitoria tremenda contro l’economia liberale che ha fatto il suo tempo e concluso il suo ciclo». La tesi di Mussolini non era infondata. Fra le leggi adottate in quel periodo dal Congresso degli Stati Unitivi vi fu anche quella per la creazione di una National Recovery Administration in cui i rappresentanti dell’industria, dei sindacati e del governo avrebbero lavorato insieme per eliminare la concorrenza selvaggia. Se non fosse stata considerata incostituzionale dalla Corte suprema, la Nra sarebbe diventata, con grande soddisfazione di Mussolini, una sorta di Camera delle corporazioni. Ma gli Usa, per l’appunto, avevano, a differenza dell’Italia, una Corte suprema.