Milena Gabanelli, Corriere della Sera 31/01/2014, 31 gennaio 2014
CARMEN LLERA MORAVIA
«Ho passato tutta la vita a eliminare. Eliminare proprietà, legami. Ho l’orrore di appartenere: è claustrofobico. Preferisco gli spazi vuoti». Carmen Llera Moravia vive in una casa semplicissima, «non arredata», così essenziale da apparire monastica. Un appartamento quasi vuoto in un palazzo romano del Cinquecento, illuminato dal riverbero della facciata bianchissima della chiesa di fronte. «Ho deciso dopo la morte di Moravia che mai più avrei vissuto con un uomo, con una presenza. Ho amato molte persone ma non ho mai rispettato la famiglia, l’ordine stabilito. Ho una mia disciplina ferrea, ma sono prigioniera di me stessa, del mio pensiero. Se almeno avessi una vocazione, tutto avrebbe un senso. Ho insegnato all’università per otto anni, mi piaceva ma non era una vocazione. Neanche la scrittura lo è, Moravia sapeva fin da bambino che avrebbe fatto lo scrittore. Quelli che hanno una vocazione, che credono in qualcosa? Mi chiedo se non stiano meglio. Vorrei tanto avere una vocazione, a parte quella a essere libera».
Non riceve quasi nessuno per riservatezza e perché, teme, sarebbero in tanti a non capire quelle pareti nude, il «non arredamento» con un tavolo, un computer portatile e una sedia per lavorare, la cucina vuota dove c’è solo una teiera, gli scaffali con i pochi libri di una donna che ha letto e legge moltissimo ma conserva soltanto quelli con la dedica degli amici scrittori. I libri di Javier Marias, di Daniel Mendelsohn, di Amin Maalouf... E quelli di Moravia. «I miei amici mi chiedono come faccio a vivere così, ma se accumulo cose sto male. Accumulo solo nella memoria. Ricordo tutto. Ho una memoria prodigiosa mio malgrado, ricordo anche quello che non voglio ricordare, di chiunque. Ma non ho nostalgia di nulla».
Quella casa senza fotografie
In casa ci sono soltanto quattro quadri – Braque davanti alla piccola biblioteca, Capogrossi (che presentò Moravia a Morante quando Carmen non era ancora nata) senza la cornice perché fu tolta dai ladri che glielo avevano rubato e quando le fu restituito dalla polizia lei scelse di tenerlo così, un disegno di Morandi, un Botero – e soltanto una fotografia. Non di Moravia, perché tutte quelle immagini sono nella memoria prodigiosa di Carmen che non ha bisogno di conservarle stampate, ma di Moshe Dayan. Il guerriero israeliano sta seduto alla scrivania del suo studio, con lo sguardo rivolto al soffitto: non si capisce se sia triste, pensieroso, o allegro. E’ una fotografia che nasconde più di quanto riveli in una casa senza fotografie, senza icone religiose a parte un magen David , la Stella di David, vicino alla finestra. Carmen sfoglia la haggadah sulla sua scrivania, le preghiere della Pasqua ebraica («Mio nonno si chiamava Moisés»), e come segnalibro c’è la foto in bianco e nero di un giovane uomo bellissimo: «E’ mio padre».
La Garbo invisibile e sempre presente
Apre una prima edizione di Moravia dopo l’altra, le dediche tenerissime e allo stesso tempo di una formalità ottocentesca del marito famoso in tutto il mondo che ringrazia la giovane moglie per aver letto il suo romanzo per prima. E si firma «affettuosamente Alberto Moravia». Il marito ideale per una donna che spiega di «non aver mai avuto spirito materno, anche se ho un figlio. I figli nascono, crescono e vanno, liberi da ricatti: sono stata educata così. L’unico mio figlio è in Giappone. Ho avuto spirito filiale, quello sì. Sono stata piuttosto precoce. Cresciuta da sola perché i miei fratelli hanno dieci anni più di me. Una famiglia dispersa. Mia sorella vive a New York. Unitissimi, nella dispersione. Sono da 35 anni in Italia ma non ho quel senso italiano della famiglia, per quello andavo d’accordo con Moravia. Non credo nella famiglia, credo negli affetti. Anche a distanza. Nell’81 ero a New York, a casa di mia sorella. Greta Garbo viveva lì vicino. La vedevo camminare per strada, anonima, con un foulard sulla testa, gli occhiali scuri. Qualche giorno fa ho rivisto Ninotchka . La Garbo è ancora la Garbo proprio perché è sparita. Presente attraverso la sua assenza, attraverso il suo mistero. Credo più nell’assenza che nella presenza. Fin da piccola ne parlavo con mia madre, le chiedevo sempre: “Ma poi questo finisce?”. Sono ossessionata dalla fine delle cose, non dal loro principio».
All’alba per le strade della «Roma vera»
Carmen esce di casa prestissimo e cammina «nella Roma vera. Non quella della Grande bellezza . Credevo che con l’età queste cose si placassero, ma vivo esattamente come vivevo a 20, 30, 40, 50... Per me il futuro arriva fino alle 13 di oggi, quando ho incontrato te. Mi terrorizza chi mi chiede dove vado per le vacanze. Mai avuto progetti. Forse vivono meglio loro, quelli pieni di programmi da rispettare, per loro vivere come me è impossibile, senza una struttura. Tu hai una struttura per il tuo lavoro, io non ho che me. Non spreco un secondo della mia vita a pensare al futuro».
E’ impossibile non chiedere a lei, corteggiata da tanti uomini, se il passare del tempo non le fa effetto, se non teme di diventare meno attraente. «In realtà piaccio soprattutto alle donne e ai bambini. Ma se non ti prepari, il giorno in cui non ti riconosci più, in cui non coincide più l’età anagrafica con l’immagine che hai di te, vedi di colpo quello che sei. A me invece infastidiscono le mie foto di anni fa. Se penso che le attrici danno ai giornali le loro foto antiche... Se una mia fotografia è vecchia sarà anche una bellissima foto, ma non sono davvero io. Mai posta il problema degli uomini. Non è quella la tragedia della mia vita, non vivo della mia immagine. Io non ho mai preso nessuno e nessuno mi lascia. In amore l’assenza è mille volte più presente. Non ho mai contato su quello, la chirurgia estetica crea mostri. I miei amori li ho vissuti nell’assenza-presenza, non nella presenza permanente, nell’overdose di tutto. Noiosissima. Adesso invece bisogna essere presenti, twittare, esserci».
Carmen va al cinema ogni giorno, «anche due o tre volte al giorno quando sono a Parigi», ma non guarda mai un film alla tv. A casa sua, l’unico televisore è piccolissimo, messo in un angolo, accantonato.