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 2014  gennaio 31 Venerdì calendario

IL MEMORIALE, LE PERIZIE, IL MOVENTE ECCO LE RAGIONI DEL NUOVO VERDETTO


DALLA NOSTRA INVIATA FIRENZE — Hanno seguito le indicazioni della Corte di Cassazione e «hanno posto rimedio» come era stato sollecitato il 26 marzo scorso proprio dai supremi giudici. Perché la sentenza d’appello che assolveva Amanda Knox e Raffaele Sollecito, era stata annullata ritenendo fosse «segnata da molteplici profili di manchevolezza, contraddittorietà ed illogicità». E ieri sera il nuovo collegio presieduto da Alessandro Nencini è addirittura andato oltre le aspettative, aggravando la pena inflitta in primo grado ad Amanda Knox e confermando quella per Raffaele Sollecito. I 28 anni e sei mesi per lei e i 25 per lui dicono che entrambi erano sulla scena del delitto, entrambi hanno partecipato all’omicidio di Meredith Kercher.
I «concorrenti»
La linea tracciata dalla Cassazione ordinando un nuovo processo d’appello era chiara: «Delineare la posizione soggettiva dei concorrenti di Rudy Guede, a fronte del ventaglio di situazioni ipotizzabili, che vanno dall’accordo genetico sull’opzione di morte, alla modifica di un programma che contemplava inizialmente solo il coinvolgimento della giovane inglese in un gioco sessuale non condiviso, alla esclusiva forzatura ad un gioco erotico spinto di gruppo, che andò deflagrando, sfuggendo al controllo».
«Concorrenti»: è questa la parola chiave. E infatti il verdetto emesso ieri sera conferma la posizione dominante di Amanda, ma assegna a Raffaele un ruolo da protagonista. Non passa la linea degli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori che avevano chiesto di «separare» i due ragazzi. Non passa la linea di chi ipotizzava per lui una condanna per favoreggiamento. Raffaele, questo dice la Corte, c’era e partecipò attivamente all’assassinio.
La confessione
Erano 14 i punti controversi evidenziati dai supremi giudici. Testimonianze, prove genetiche, ricostruzioni: ogni aspetto era stato rimesso in discussione. E molti dubbi erano stati espressi sulla valutazione delle dichiarazioni di Amanda Knox, la sua confessione e quel memoriale che — meno di una settimana dopo il delitto, quando le indagini della polizia non avevano ancora imboccato alcuna pista — ricostruì che cosa era accaduto nella villetta di via della Pergola indicando in un giovane di colore l’assassino di Mez.
Davanti ai poliziotti della squadra mobile di Perugia la giovane di Seattle entrò nei dettagli, disse che Patrick Lumumba voleva avere un rapporto sessuale con la sua amica, che si erano chiusi in camera e poi lei si era tappata le orecchie perché non voleva sentire «ma avevo capito che cosa stava accadendo». Decise anche di scriverlo a mano, in bella grafia su alcuni fogli a righe che poi consegnò agli agenti. Non era Patrick, ma Rudy. E proprio lui, unico ad aver ammesso di essere stato quella sera con Mez pur negando di averla uccisa, ha confermato ogni particolare di quella ricostruzione. Avvalorando l’ipotesi che Amanda abbia accusato uno per coprire l’altro, così sperando di salvare anche se stessa.
Il memoriale
Una tesi che la Cassazione aveva in qualche modo confermato affermando: «È vero che si tratta di riflessioni di dubbio significato sostanziale, ma è anche vero che non potevano essere liquidate — come furono — sul presupposto della pressione psicologica a cui fu sottoposta l’autrice e della manipolazione psichica operata, in primis perché lo scritto fu confezionato nella piena solitudine successivamente agli eccessi inquisitori e poi perché proprio quello scritto venne utilizzato dalla stessa corte di secondo grado come base probante del delitto di calunnia, sul presupposto della piena capacità di intendere e volere, tanto da venire la Knox condannata anche sulla base di questo scritto, oltre che sulla base di quanto raccontato ancora una volta in piena autonomia e al riparo da interventi pressanti, alla madre, nel corso di un colloquio con lei».
Quanto bastava per evidenziare «una palese contraddittorietà nella valutazione della stessa prova, che mette in discussione la coerenza strutturale della decisione» e invitare «il giudice di rinvio a formulare nuovo giudizio, con maggiore coerenza argomentativa, trattandosi anche in questo caso di un passaggio significativo del discorso giustificativo, afferente la presenza o meno della giovane presso la sua abitazione al momento del fatto».
La condanna di Rudy
E poi c’è la sentenza che ha condannato Guede a 16 anni di carcere, diventata ormai definitiva, per concorso in omicidio. Su questo la Cassazione era stata lapidaria, specificando come «il dato della presenza di altre persone andava necessariamente correlato con quello sulla disponibilità della casa» dove fu compiuto il delitto e dunque sulla presenza di Amanda.
Dna, testimoni, interrogatori: la partita tra accusa e difesa non è conclusa, si giocherà nuovamente tra qualche mese davanti alla Corte di Cassazione. Ma la sentenza di ieri sera sembra aver segnato inesorabilmente il futuro di Amanda e Raffaele.