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 2014  gennaio 31 Venerdì calendario

PORCIA E I WALLENBERG


«Non possiamo sperperare il nostro patrimonio perché in realtà non ne siamo proprietari. Questo tuttavia non ci impedisce di distruggerlo». Parola di Jacob Wallenberg, rampollo della dinastia svedese proprietaria di Electrolux e di un’ottantina di società che spaziano dalla farmaceutica all’elettronica.
Quando pronunciò questa frase, non poteva prevedere che di lì a qualche anno la distruzione per nulla creativa dei due cugini che rappresentano la terza generazione della famiglia svedese si sarebbe concentrata su uno degli stabilimenti modello dell’impero dei Wallenberg, quello di Porcìa, il paese annidato lungo la Pontebbana e mimetizzato tra una selva di insegne per nulla discrete di sexy shop e doner kebab.
Una sorte paradossale per la fabbrica che fu degli Zanussi, il tempio degli elettrodomestici bianchi e della leggendaria Rex, la lavatrice che affrancò milioni di massaie italiane dalla schiavitù del lavaggio a mano di lenzuola e camicie. La Rex, che ai bei tempi deteneva il 37% del mercato domestico, sta alla liberazione della donna così come la 600 Fiat alla mobilità di massa.
Una rivoluzione identitaria e di genere che gli svedesi cancellano con un colpo di penna dall’immaginario degli italiani. Eppure la leggenda dei Wallenberg narra che uno dei motivi della loro ricchezza risieda nella capacità di piazzare i manager giusti al posto giusto. Una teoria che non convince affatto Mario Grillo, uno degli ex dirigenti di punta dell’azienda svedese in Italia. Dice: «Uno dei grandi errori è stato quello di eliminare i marchi storici dei singoli Paesi nei quali Electrolux ha rilevato via via gruppi industriali autoctoni: sono stati soppressi i marchi storici di Arthur Martin in Francia, Rex e Zoppas in Italia, Juno nella Repubblica federale di Germania».
Gli operai che picchettano sotto la pioggia gelida annuiscono. Dice Elisabeth Fanella, delegata Fim e figlia di due emigranti in Svizzera: «Se è per questo mancano all’appello 600 mila lavatrici che producevamo ogni anno come terzisti per l’azienda tedesca Quelle». Dev’esserci un retaggio socialdemocratico in questa smania dei Wallenberg e dei suoi manager di sopprimere la ricchezza racchiusa in brand che rappresentano la stratificazione di storie private e collettive. Una tendenza confermata dal sindaco di Pordenone Claudio Pedrotti, fino a tre anni fa responsabile europeo dell’Ict del gruppo svedese: «Di alcune sviste si accorgerebbe pure uno studente al primo anno di Economia: scommettere tutto sul marchio Electrolux senza neppure investire su una campagna pubblicitaria degna di questo nome è stata una scelta quanto meno azzardata».
Mentre i vertici temporeggiano, l’americana Whirlpool, la tedesca Bosch e la coreana Samsung rosicchiano poco alla volta quasi la metà della torta italiana. Persino l’artistocratica Mìele, l’Aston Martin renana delle lavatrici, sigilla dietro i suoi costosissimi oblò il 5% del mercato nostrano. Precipita di pari passo la produzione di Porcìa, che passa dagli oltre due milioni di pezzi del 2005 agli 1,1 milioni di oggi. Produzione, non produttività, perché le lavabiancheria prodotte ogni ora, grazie all’automazione e agli accordi sindacali, crescono da 60 a 94.
«Noi ci siamo fatti in quattro per far girare la fabbrica come un orologio svizzero», assicura Roberto Billeci, due occhi normanni ereditati dal padre, siciliano di Palermo e poliziotto trasferito a Pordenone alla metà degli anni ’60. Gli elettrodomestici da incasso come i frigoriferi hanno margini ragguardevoli, le lavatrici, no. Il resto fa parte del corto circuito alimentato dalla crisi dei consumi e dall’aggressività dei concorrenti, alcuni dei quali vanno all’arrembaggio dell’Europa a colpi di dumping.
La migrazione in Polonia non piace neppure agli industriali friulani. Paolo Condotti, direttore di Confindustria Pordenone ed ex capo del personale di Electrolux, invita alla cautela: «Non vorrei si ripetesse a Porcìa quello che è accaduto a Norimberga, dove Electrolux ha scucito più di 500 milioni per sbaraccare uno stabilimento. E poi che ne sarebbe dell’indotto? Per ogni operaio ce ne sono almeno due che lavorano nella subfornitura». Un monito al quale il presidente degli industriali, Michelangelo Agrusti, aggancia una proposta: «Ci sono otto azioni concrete per trasformare Pordenone in una new manufacturing zone».
La parola ora è alle trattative: finalmente si compulsano quote di mercato, politiche industriali, curve di produttività, opzioni di marketing. Il costo del lavoro è solo una delle variabili. È come se tutti cercassero di stanare gli svedesi dalla loro proverbiale riservatezza. «Questa partita va giocata a carte scoperte», incita Agrusti. Prima di questo brusco atterraggio, in fabbrica hanno sperimentato la Cassa integrazione ordinaria, quella straordinaria, la mobilità volontaria e gli esodi incentivati. Centinaia di operai ghanesi reclutati alla Electrolux ai tempi delle vacche grasse («i neri che producono il bianco», ironizzavano a Pordenone) colgono al volo l’offerta degli esodi incentivati: 40mila euro e vai con Dio, poi scesi a 30mila e in questi giorni ai minimi con 20mila euro. Prendere o lasciare. Gli altri 1.100 operai, i bianchi che producono elettrodomestici bianchi, non ne voglio sapere. «La storia di una terra non si chiude», recita un cartello zuppo di pioggia piantato davanti i cancelli della Porcìa plant.