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 2014  gennaio 31 Venerdì calendario

FRANCO GRIGNANI IL GENIO NASCOSTO DENTRO IL GOMITOLO


Non c’è dubbio che l’aggomitolato e fosforescente logo della Lana Vergine, talmente icastico da parere anonimo, sia stato a un tempo benedizione e dannazione, per il suo segreto creatore, a troppi oscuro: Franco Grignani. Perché ha come ombreggiato tutta la profondità creativa e il travaglio sperimentale, quasi il suo scontroso genio, poco italico e molto Bauhaus (studioso vero di matematica e di geometria non-euclidea), si fosse annidato dietro quell’esplosivo, folgorante nastro pubblicitario: una specie di nastro di Möbius astratto, che ricorda i «rompicapi» di Escher (che lui chiama: «rompicolli»).
La sorprendente mostra alle milanesi Stelline, curiosamente a poca distanza da quella d’un altro astrattista lirico come Albers, riparte, simbolicamente, quasi in uno story board a passo ridotto, dalla genesi, tentativa e «casalinga» di quel logo: fiammante e arditissimo. Ed è incredibile verificare, passo dopo passo, come, su modesti quadernetti scolastici, procedesse la sua poetica rivoluzionaria. A contatto bruciante con il grande e oscuro pensiero scientifico e filosofico del Novecento, Wittgenstein e la Gestalt, su tutti: impensabilità del pensare, paradossi logico-visivi, calembour ottici (basta guardare le sue tele da una prospettiva sbieca, come delle anamorfosi manieriste, per capire come l’immagine si rivolti, quasi un demonico serpente ribelle). Modesto quanto radicale: quasi fosse uno studente caparbio (e «sterminato», per dirla con l’introduttore Giovanni Anceschi: si parla di almeno 14.000 «dimostrazioni» grafiche, quasi fossero teoremi matematici, «fioriti» a immagine). E uno ne esce come ebbro e «fumato», d’alterazioni visive, vibratili e instabili: distorsioni alla Kertesz, alterazioni visive «psicotrope», forme ipnotiche e «disgregazioni d’immagini», da far pensare all’Alechinsky Cobra.
Ancor più della retrospettiva Anni Settanta, alla Rotonda delle Besana, ove i suoi lampeggianti flash optical dialogavano magnificamente con le colonne barocche del lazzaretto, questa, concertata da Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio, alterna il suo profetico «mestiere» di grafico, con la sua appunto «sterminata» e non ancora completamente sondata attività d’artista visual-visionario. Inafferrabile per originalità, e riserbo sperimentale, per tanto ben più noto all’estero (le sue opere essendo contemplate in musei come lo Stedelijck, il Moma e il V & A), è stato non a caso più omaggiato da estetologhi, «eretici»e curiosi, come Ballo o Dorfles o Bruno D’Amore, che non da critici d’arte ufficiali. Che invece hanno osannato l’optical più «ruffiano»di Soto e Vasarely. E oggi non è un caso che a recuperarlo, nel prezioso catalogo Credito Valtellinese, sia il figlio di un grande teorico dell’estetica come Luciano Anceschi e, di suo, cultore e protagonista di quella poesia visiva, che l’ha non di meno trascurato.
Grignani, pavese (1908-1999) nasce futurista, e lo dimostra qui un nudo di donna, anatomicamente «ciclista», che ricorda molto il suo amato Boccioni, a dire il suo precoce interesse per la simultaneità dinamica. Poi passa attraverso il torinese Fillia e il milanese Munari. E se si guarda l’innovativa pubblicità, foto-montaggio alla Hearfield, copertina di Bellezza d’Italia, con la Mole Antonelliana raggiante, è difficile non pensare a certi ibridi sovraesposti di Veronesi o di Mollino, cui curiosamente assomiglia, con i suoi baffetti da cavallerizzo. E non sarà un caso ch’egli studi architettura nella stessa Torino post-crepuscolare.
In realtà, in guerra, si occupa soprattutto di artiglieria, e studia «i calcoli delle traiettorie di alzo e di falso scopo, dei puntamenti della contraerea». E se si osservano meglio certe immagini «in fibrillazione» di cerchi concentrici e di buchi, alla Dadamaino o alla Scegghi, è difficile non notare che, come in una declinante grafia «depressiva» le sue forme spesso precipitano verso il basso, implodono, «urlano», espressionisticamente, secondo sua formula. Quasi fosse un bersaglio, ma sempre mobile e imbattibile, «induttivo». L’arte, per lui, non deve essere concettuale, come la moda stava imponendo, ma mentale: un meccanismo «cognitivo», che richiede il contributo, scosso, turbato, della retina dello spettatore, investito, letteralmente. Questo anche nella pubblicità, spavaldamente: non proponendo un’immagine fissa, una forma impressiva, ma anzi fuggevole, come certe sorgenti pennellate striate di Romiti: quasi un rebus visivo, da prendere al volo. Contro ogni regola accademica.
E sia merito a committenti coraggiosi, come il Dompé dei medicinali o l’editore Alferi e Lacroix, per cui lui «lancia» anche originali calligrammi visivo-pubblicitari, tutte pause, scosse, storture, molto debitrici alla tipografia in libertà del Futurismo: «tipografia esaltante spettacolare, avveniristica». Apocalittico-integrato, la sua Thonet perde, in una pubblicità, le piume del cannetté, ma si proietta in un futuro, per quanto «malato». «Virtualità spaziale quasi traumatizzata«, come bene suggerì Dorfles nel 1966.