Emanuela Audisio, la Repubblica 31/01/2014, 31 gennaio 2014
THORPE, IL BUOI DENTRO “E’ IN CLINICA PER L’ALCOL”
Quando è la vita a farti annegare e non l’acqua dove sei cresciuto. Quando dalla vasca passi alla bottiglia, dal tocco alla sbornia, quando non ti riconosci più perché sei sempre stato abituato a volere di più. E non altro. Quando non galleggi più, nemmeno sull’esistenza. E non hai più la verità dello sport che nella sua infinita e saggia crudeltà ti assegna sempre un posto, una corsia, un tempo. Ian Thorpe, 31 anni, grandissimo campione australiano di nuoto, non solo di numero di piede (53) è ricoverato in una clinica di disintossicazione a Sydney. Abuso di alcol e depressione, non un facile avversario. È stato un incidente domestico nella casa dei genitori a convincerlo ad ammettere il problema. Thorpe in piscina ha avuto tutto: campione del mondo per la prima volta a 14 anni nel ’98, detentore ancora oggi del record di ori olimpici per un australiano (cinque),è stato il primo atleta a vincere sei titoli in un mondiale (nel 2001). Nell’acqua tutto filava, ma a 24 anni la prima ammissione: «Ho la nausea, provo disgusto e indifferenza. Sento di non aver vissuto come volevo». Non trovava più eccitazione nello sport, il nuoto per lui aveva perso i punti esclamativi. Era l’addio, il suo modo di dire basta al cloro, al mondo che stava in un bordo. Dopo 19 stagioni favolose e uno stile libero da urlo: 11 titoli mondiali, 5 ori olimpici. In piscina era arrivato uno molto più squalo di lui, un americano di nome Michael Phelps. Thorpe insisteva nell’inversione di rotta: «Non voglio che il nuoto diventi la mia coperta di Linus e non m’interessa se dicono che sono gay solo perché non ho un aspetto macho».
Qualcosa si era smosso dentro l’11 settembre 2001. Il suo infinito era cambiato: stava andando a visitare le Torri Gemelle, proprio a quell’ora lì, ma aveva dimenticato la macchina fotografica in albergo. Tornò indietro e si salvò. Dall’attentato terroristico, non dai pensieri sul destino. Che è un avversario scomodo, peggio di Moby Dick, mina certezze, spalanca solitudini e rimpianti. Da quel momento Ian ha cominciato a chiedersi se non valeva la pena guardare più in là, senza accontentarsi delle piccole grandi sicurezze che danno le medaglie che poi nella quotidianità non servono a molto.
Nel 2011 si era ributtato in acqua per perdere i chili accumulati e per provare a qualificarsi per i Giochi di Londra, con la spinta dello sponsor che gli aveva promesso un milione di dollari. Non male come incentivo alla dieta. Diciotto mesi di allenamento in
Svizzera. Ci aveva provato, era dimagrito, ma a restare ciccioni erano i secondi. Troppo lento, troppo staccato, troppo fuori tempo. Ormai non da più sportivo il suo look: con la barba appena accennata, e quell’essere easy che preludeva a notti e giorni in libertà. Non era un segreto, aveva ammesso tutto nell’autobiografia: «Questo sono io». Beveva fino a stordirsi, non riusciva a dormire, troppe ombre, nessuna luce. «Volevo essere il ragazzo perfetto. Non lo ero. Mi sono nascosto a tutti. Ho nuotato i miei tempi migliori nei periodi peggiori. Mi hanno dato del gay prima che io sapessi chi fossi come persona.
Ho pensato anche al suicidio, ma mi rendevo conto di quanto fosse ridicolo».
Un suo amico, Alan Jones, ha detto: «Ian è una bellissima persona, ma ha difficoltà a riconoscere i suoi problemi». Ora lo ha fatto. Basta apnee.