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 2014  gennaio 30 Giovedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - PROCESSO MEREDITH


REPUBBLICA.IT
Ventotto anni e sei mesi di reclusione per Amanda Knox. Venticinque per Raffaele Sollecito. E’ questa la sentenza, dopo 11 ore di camera di consiglio, della corte d’assise d’appello di Firenze per il processo bis per l’omicidio di Meredith Kercher. In aula, alle 21, arrivati anche il fratello e la sorella di Mez: "Siamo pronti a rispettare qualsiasi decisione", avevano detto.

E in aula non era presente Raffaele Sollecito che, in mattinata, aveva annunciato che sarebbe stato presente alla lettura della sentenza. "Ora vado via - aveva detto uscendo dal Palagiustizia all’inizio della camera di consiglio - ma tornerò dopo". Nel corso del pomeriggio ha invece preferito rinunciare ed avrebbe lasciato Firenze insieme ai suoi familiari. Non è comunque ancora chiaro dove Sollecito attenderà la sentenza. Forse a casa di alcuni parenti, ma sulla destinazione viene mantenuto un riserbo assoluto. "Non ce la facciamo" si è limitato a spiegare il padre, Francesco Sollecito. Sui banchi della difesa ad attendere la sentenza i suoi legali, gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori.
Negli Stati Uniti è invece rimasta la Knox. La giovane americana è a casa dalla madre e rimane in contatto con i suoi difensori, gli avvocato Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga, via sms. La giovane americana è "preoccupata e stanca", hanno spiegato i legali. A loro continua a chiedere indicazioni sugli sviluppi della giornata.

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Questa mattina Raffaele Sollecito era giunto questa mattina in aula accompagnato dal padre e da altri familiari. Cappotto blu, maglioncino viola con appesi sulla scollatura gli occhiali da sole, il giovane non ha voluto fare dichiarazioni ai tanti giornalisti in attesa. "Chi ce l’ha con me pensava che non venissi", ha detto. Si è subito seduto sui banchi riservati alla sua difesa rimanendo a parlare con i parenti. Accanto a lui uno dei difensori, l’avvocato Luca Mauri, e i legali di Knox, gli avvocati Luciano Ghirga e Carlo Dalla Vedova.

A Seattle, invece, Amanda Knox ha rilasciato un’intervista via Skype al New York Times. "Nulla potrà cancellare l’esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata", afferma la giovane di Seattle. Amanda è stata descritta come una persona diabolica, scrive il giornale: "Ma io non sono così, sono diversa da come mi hanno dipinta", afferma. La studentessa americana spiega perchè ha deciso di non essere in aula per la sentenza, a differenza del suo ex fidanzato Raffaele Sollecito: "Mi sarei messa nelle mani di persone che hanno dimostrato chiaramente di volermi in carcere per qualcosa che non ho fatto - racconta - E io non posso farlo. Proprio non posso".
"Le persone che mi accusano - conclude - sostengono che non può essere fatta giustizia per Meredith sino a che io non verrò condannata".

Sollecito questa mattina era accompagnato dal padre Francesco. "Venire qua stamani è una scelta di coraggio e di rispetto nei confronti della Corte - ha commentato Francesco Sollecito - e di fiducia nella giustizia".
Uscendo dall’aula Sollecito ha stretto la mano a Patrick Lumumba, il musicista coinvolto nell’indagine sull’omicidio di Meredith Kercher dalle dichiarazione di Amanda Knox ma poi risultato estraneo al delitto e quindi prosciolto. Tra Sollecito e Lumumba c’è stato
anche uno scambio di sorrisi. Il giovane pugliese si è quindi allontanato accompagnato da tutti i suoi familiari. "Raffaele mi ha sempre dato l’impressione di un bravo ragazzo - ha detto Lumumba - "l’avevo visto l’ultima volta da libero nel mio locale, ora chiuso". Riguardo alla Knox, Lumumba ha ribadito che "Amanda sta scappando". "Se non hai fatto niente - ha proseguito - dovevi essere qua. Mi aspetto che Amanda venga condannata".

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Processo Meredith, oggi è il giorno della sentenza. Ancora non si è conclusa la camera di consiglio dalle 10 di questa mattina, in corso dunque da otto ore. La lettura della sentenza è prevista per le 20. E in aula non ci sarà Raffaele Sollecito che, in mattinata, aveva annunciato che sarebbe stato presente alla lettura della sentenza. "Ora vado via - aveva detto uscendo dal Palagiustizia all’inizio della camera di consiglio - ma tornerò dopo". Nel corso del pomeriggio ha invece preferito rinunciare ed avrebbe lasciato Firenze insieme ai suoi familiari. Non è comunque ancora chiaro dove Sollecito attenderà la sentenza. Forse a casa di alcuni parenti, ma sulla destinazione viene mantenuto un riserbo assoluto. "Non ce la facciamo" si è limitato a spiegare il padre, Francesco Sollecito. Sui banchi della difesa ad attendere la sentenza i suoi legali, gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori.
Negli Stati Uniti è invece rimasta la Knox. La giovane americana è a casa dalla madre e rimane in contatto con i suoi difensori, gli avvocato Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga, via sms. La giovane americana è "preoccupata e stanca", hanno spiegato i legali. A loro continua a chiedere indicazioni sugli sviluppi della giornata.

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"Siamo pronti ad accettare qualsiasi decisione", ha detto la sorella di Meredith, Stephanie, in una intervista a Sky News 24. "Non vogliamo che a pagare siano le persone sbagliate - ha aggiunto - quello che vogliamo è sapere cosa è successo quella notte".

Questa mattina Raffaele Sollecito era giunto questa mattina in aula accompagnato dal padre e da altri familiari. Cappotto blu, maglioncino viola con appesi sulla scollatura gli occhiali da sole, il giovane non ha voluto fare dichiarazioni ai tanti giornalisti in attesa. "Chi ce l’ha con me pensava che non venissi", ha detto. Si è subito seduto sui banchi riservati alla sua difesa rimanendo a parlare con i parenti. Accanto a lui uno dei difensori, l’avvocato Luca Mauri, e i legali di Knox, gli avvocati Luciano Ghirga e Carlo Dalla Vedova.

A Seattle, invece, Amanda Knox ha rilasciato un’intervista via Skype al New York Times. "Nulla potrà cancellare l’esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata", afferma la giovane di Seattle. Amanda è stata descritta come una persona diabolica, scrive il giornale: "Ma io non sono così, sono diversa da come mi hanno dipinta", afferma. La studentessa americana spiega perchè ha deciso di non essere in aula per la sentenza, a differenza del suo ex fidanzato Raffaele Sollecito: "Mi sarei messa nelle mani di persone che hanno dimostrato chiaramente di volermi in carcere per qualcosa che non ho fatto - racconta - E io non posso farlo. Proprio non posso".
"Le persone che mi accusano - conclude - sostengono che non può essere fatta giustizia per Meredith sino a che io non verrò condannata".

Sollecito questa mattina era accompagnato dal padre Francesco. "Venire qua stamani è una scelta di coraggio e di rispetto nei confronti della Corte - ha commentato Francesco Sollecito - e di fiducia nella giustizia".
Uscendo dall’aula Sollecito ha stretto la mano a Patrick Lumumba, il musicista coinvolto nell’indagine sull’omicidio di Meredith Kercher dalle dichiarazione di Amanda Knox ma poi risultato estraneo al delitto e quindi prosciolto. Tra Sollecito e Lumumba c’è stato
anche uno scambio di sorrisi. Il giovane pugliese si è quindi allontanato accompagnato da tutti i suoi familiari. "Raffaele mi ha sempre dato l’impressione di un bravo ragazzo - ha detto Lumumba - "l’avevo visto l’ultima volta da libero nel mio locale, ora chiuso". Riguardo alla Knox, Lumumba ha ribadito che "Amanda sta scappando". "Se non hai fatto niente - ha proseguito - dovevi essere qua. Mi aspetto che Amanda venga condannata".

PEZZI DEL CORRIERE DI STAMATTINA
ROBERTO COSTANTINI
«Amanda vi ha scritto una lettera, prima del verdetto, da consegnarvi se un giorno la vorrete».
Non avevo idea di che reazione avrebbe avuto Stephanie Kercher quando le ho dato questa notizia durante l’intervista pochissimi giorni fa. Qualunque reazione, anche l’abbandono dell’intervista, sarebbe stata legittima. Invece questa ragazza straordinariamente forte ed equilibrata si è fermata a pensarci, come ha fatto per ogni altra domanda. E poi, con calma, ha risposto: «Ci dovrei pensare, non lo so, ma oggi non la vorrei leggere, perché non sento adesso il bisogno di parlare con lei». La parola oggi, invece che mai, è un atto di grande generosità e razionalità. Credo che non dipenderà tanto dal verdetto, ma dal comportamento futuro di Amanda nelle settimane, nei mesi, negli anni.
Amanda è corretta e realista, sa che non può pretendere di essere ascoltata dai Kercher e, al momento, forse neanche proporlo. In uno dei nostri scambi via skype — sono stati diversi da quando mi occupo del delitto di Perugia — me lo ha detto e scritto in italiano: «Una mia comunicazione a loro, oggi, introdurrebbe molta ansia e sofferenza per la famiglia, anche se scrivo solo parole di conforto». Ieri le ho riferito la risposta di Stephanie e lei mi è sembrata perfettamente consapevole. Mi ha confermato che potremo consegnare la lettera ai Kercher su loro richiesta anche fra mesi o fra anni, che lei sia giudicata colpevole o innocente. Ne rendo nota l’esistenza adesso, ultimo momento prima del verdetto: il contenuto della lettera e la sua eventuale consegna non dipendono dalla sentenza. Né da quella di Firenze né, se ce ne saranno, da quelle successive.
Sul verdetto di Firenze Stephanie e Amanda hanno ansie diverse ma non opposte. Stephanie mi ha detto con ammirevole equilibrio e serenità: «Per oltre sei anni siamo dovuti scendere a patti con questo processo e col baillamme mediatico, e provare a continuare la nostra vita». Infatti mi parla dall’ufficio dove lavora, in una pausa per il pranzo. E continua: «Il verdetto è una scadenza da onorare per la memoria di Meredith, non una fonte di rivincita o della verità. Sappiamo che i giudici e i giurati non conoscono con certezza la Verità. Vorremmo che il processo e le chiacchiere intorno ad esso finissero oggi per poterci concentrare solo sul nostro dolore e sul ricordo di Meredith. Tanto, nessuno ci ridarà mia sorella e la nostra vita è finita».
Stephanie parla dell’iter processuale. Dice: «Abbiamo dovuto resistere al sistema giudiziario italiano per noi così diverso da essere incomprensibile». Non muove alcuna critica o accusa ai giudici, ma parla della giustizia italiana con la rassegnata stanchezza e fatalismo di chi è stato costretto a salire su un treno (un Regionale, non una Freccia) e deve restarvi sino ad un fine corsa che non solo non arriva mai, ma forse non porta da nessuna parte. «Per la mancata conoscenza del vostro sistema in America e in Gran Bretagna molti pensano che la famiglia Kercher vuole portare avanti questo giudizio infinito verso i due imputati. Noi invece vorremmo che tutto ciò finisse prima possibile».
E se li condannassero sareste sicuri che siano colpevoli? Stephanie ci pensa un po’, poi mi risponde col suo tono educato, gentile, razionale. «I dubbi saranno sempre gli stessi. In qualunque modo nel mio cuore resterebbero i dubbi, è ovvio, ma noi possiamo solo accettare ciò che ci diranno i giudici e rispettare comunque le decisioni della Giustizia italiana».
A questo proposito abbiamo accennato alla Fondazione Kercher, creata per raccogliere fondi per la memoria di Meredith. Le ho chiesto se si aspettasse un contributo dai cittadini italiani visto che la sorella è morta mentre studiava in Italia e la nostra Giustizia non è stata capace di dare certezze. Con la stessa gentilezza mantenuta per tutta l’intervista, Stephanie ha detto che «tutto questo poteva succedere ovunque, gli italiani non hanno colpe e non ci devono nulla. Noi faremo tutto il possibile per onorare la memoria di Meredith con ciò che avremo».
Per Amanda il verdetto è invece la tappa intermedia di una lotta titanica, non solo per essere assolta ma per il suo desiderio forse inesaudibile, di essere creduta. Quando parla con me, che le dico apertamente che non sono qui a giudicarla, che il dubbio è un suo diritto ma non può esigere di essere creduta, lei sa di combattere contro una condanna più infida e definitiva di quella di qualunque Corte. Ed è per questo che insiste: «Devo continuare a parlare coi media perché il mondo intero si è messo tra me e i Kercher e ho pensato che per convincere loro a parlarmi devo prima convincere il mondo…». È come se per Amanda fossero i media i giudici finali, quelli che possono sgombrare la mente della gente comune e persino dei familiari della povera Meredith dall’insostenibile pesantezza del dubbio.
Stephanie Kercher mi è sembrata immensamente al disopra di questo mondo e ce lo ha dimostrato, lei e la sua famiglia, col silenzio di questi anni. Anche l’intervista di lunedì non voleva farla (e abbiamo parlato di altre cose che riguardano la memoria di Meredith e che non hanno motivo di essere scritte qui). Lei sopporta un dolore immenso con silenzio, dignità, fermezza e persino rispetto per gli imputati. Non ho mai sentito nelle sue parole con me, nemmeno nei confronti di Amanda e Raffaele, il risentimento e il disprezzo persino osceno che ho trovato in certi articoli e a volte persino in aula. Solo osservazioni molto più razionali e consapevoli anche di tante opinioni di esperti o presunti tali (inclusa la mia). E un grande desiderio di silenzio. Su Amanda ha concluso: «Colpevole o innocente, lei dovrebbe essere certa che i suoi familiari siano i primi a crederle, poi noi Kercher e solo dopo tutti gli altri… eppure in questi anni l’ho vista spesso sui giornali e in tv, come se per lei contasse più il mondo che noi».
Non so se Amanda condividerà questa logica, che al momento non è un invito né un consiglio. Quella in base alla quale non è il mondo che convincerà i Kercher, forse, un giorno, a leggere la sua lettera. Le parole dei profeti sono scritte sui muri della metropolitana e negli androni dei palazzi, e diventano sussurro nel suono del silenzio, cantavano Simon & Garfunkel. Indipendentemente dalle sentenze. Ma era tanti anni fa, forse oggi non si può più.


***





Giovedì 30 Gennaio, 2014
CORRIERE DELLA SERA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Raffaele in aula e lei a Seattle L’attesa per la sentenza, il nodo delle misure cautelari
DAL NOSTRO INVIATO FIRENZE — Lui in aula, a guardare negli occhi i giudici mentre leggono la sentenza, e lei in America, a casa, ad aspettare la telefonata dei suoi legali italiani: ma nei sei anni e mezzo trascorsi dalla morte di Meredith Kercher, da quel gelido novembre del 2007, è cambiato molto, non solo per Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Movente, ruolo degli imputati, prove scientifiche, arma del delitto: nei tre gradi di giudizio celebrati fin qui la storia di quella notte terribile, o almeno la ricostruzione processuale, s’è modificata udienza dopo udienza. E stasera, dopo una camera di consiglio che s’annuncia lunga, la corte d’appello di Firenze del presidente Alessandro Nencini scriverà quella che, salvo nuove sorprese dalla Cassazione, sarà la fine della storia. La verità, almeno quella processuale.
Meredith Kercher viene ritrovata la mattina del due novembre 2007 in camera sua, seminuda, con ferite da taglio al collo; dopo pochi giorni vengono portati in carcere i due fidanzatini, accusati d’omicidio insieme con Patrick Lumumba: passano un paio di settimane e, in Germania, viene fermato Rudy Guede, che sarà condannato in via definitiva a sedici anni grazie a prove scientifiche giudicate inoppugnabili. Attenzione: Guede è condannato per «concorso in omicidio». Chi c’era con lui? Di certo Lumumba viene liberato e per Amanda Knox, che l’aveva tirato in ballo, si aggiunge anche l’accusa di calunnia. Nel 2009 la sentenza di primo grado: Amanda e Raffaele condannati a ventisei e venticinque anni, colpevoli di un omicidio commesso con un coltello da cucina sul quale vengono considerate prove tracce della vittima, sulla lama, e dell’americana, sul manico; i due imputati, secondo la ricostruzione del pm Giuliano Mignini, hanno colpito Mez a morte durante un gioco erotico.
L’appello, nel 2011 e sempre a Perugia, ribalta la decisione: assolti, prove scientifiche contaminate secondo i periti nominati dal tribunale. Storia finita? Macché: la Cassazione ordina un nuovo processo d’appello, tutto da rifare, e l’indicazione per il giudice fiorentino è chiara, deve «valutare gli indizi con una visione unitaria». È «una strada stretta», dice subito l’avvocato di Amanda, Luciano Ghirga. E, a Firenze, ecco altre novità: per il procuratore generale Alessandro Crini — che chiede trent’anni per lei e ventisei per lui — i due hanno ucciso sì Meredith, ma a seguito d’un litigio deflagrato per le pulizie, per la presenza di Rudy Guede nell’appartamento. E non con un solo coltello, quello da cucina, ma con due, il secondo mai ritrovato. Crini, prima di concludere, chiede che la corte in caso di condanna disponga una misura cautelare per far scontare la pena ai due: difficile, almeno per la cittadina americana Amanda Knox, che al momento se ne sta a Seattle. Nell’arringa difensiva, Giulia Bongiorno difende Raffaele e fa capire che lui è a processo «solo per riflesso: di lui non c’è traccia né sulla scena del crimine né nella pseudo confessione dell’americana». In sintesi, la Bongiorno gioca la sua carta a sorpresa: assolveteli, dice alla corte, ma in caso di condanna fate attenzione a separare le due posizioni. Contro di lui c’è il gancetto del reggiseno di Mez sul quale ci sarebbero tracce del ragazzo: ma fu repertato 46 giorni dopo il primo sopralluogo.
Difficile immaginare quale sarà la decisione dei giudici, stasera: ma nei tre gradi celebrati fin qui ogni sentenza ha scatenato veleni e polemiche. L’epilogo non farà eccezione: ma per capire quanto tutto sia cambiato, rispetto a sei anni fa, basterà guardare il banco degli imputati. Con Raffaele accanto a un posto vuoto.
Alessandro Capponi

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