Andrea Tarquini, Limes 1/2014, 30 gennaio 2014
IN EUROPA MA SENZA TABÙ
1. VILLINI A SCHIERA, NUOVI QUARTIERI DI case unifamiliari o di dignitose palazzine degli operai e del nuovo ceto medio, la trafficatissima autostrada per Berlino e la ferrovia dove il Berlin-Warszawa Express, il treno veloce delle Pkp (le ferrovie ancora statali polacche) trainato da una locomotiva Siemens da 11 mila cavalli, corre tranquillo dalla Vistola alla Sprea a 220 km/h. Ecco cosa scorgi dall’oblò dell’aereo che si prepara ad atterrare. Più lontano i grattacieli delle multinazionali, simbolo del trionfo pacifico sul vecchio sistema, si tengono a debita distanza da Stare Miasto, la splendida città vecchia distrutta da Hitler con il beneplacito di Stalin (visto che l’Armata Rossa era appena oltre il fiume) e fedelmente ricostruita. Ma nascondono ormai all’orizzonte il Palazzo della cultura e della scienza, l’enorme e goffo edificio simile al ministero degli Esteri di Mosca regalo non voluto della fu Unione Sovietica.
Intanto, a bordo del nuovissimo Embraer 190 della Lot (le aerolinee polacche) la voce gentile della hostess annuncia in più lingue l’imminente atterraggio all’aeroporto Fryderyk Chopin – dove le valigie arrivano sul nastro prima dei passeggeri – e informa sulle coincidenze per l’Est post-sovietico, per le Americhe, per il Golfo e l’Estremo Oriente. Questo il primo assaggio di un paese dinamico, la cui corsa verso il futuro rievoca il finale d’un film di Krzysztof Zanussi dedicato ai giovani che vissero la repressione del Sessantotto, con il protagonista che dice «vivo correndo e morirò correndo».
Eccoci in Polonia, una generazione dopo. Centri storici stupendi e ben tenuti, infrastrutture rinnovate cogliendo al balzo gli Europei di calcio 2012, nuovi quartieri con giardinetti e asili per il nuovo ceto medio. Ovunque giovani poliglotti e qualificati, non pochi emigrati dopo la svolta e oggi tornati a casa. La Polonia è uno dei paesi che crescono di più nell’Unione Europea colpita dalla recessione e ossessionata dal rigore fiscale a oltranza in stile Bundesbank, persino in società impoverite come la Grecia, dove il ceto medio dà i figli in adozione. Qui no, qui il ceto medio cresce. La capitale guidata dal sindaco ed ex governatrice della Banca centrale Hanna Gronkiewicz-Waltz, di Piattaforma civica (il partito del premier), è il cantiere edile più grande d’Europa: nuovi grattacieli, la seconda linea della metropolitana, tram, scuole e ospedali.
Il referendum contro madame le maire indetto dall’opposizione nazional-conservatrice-populista è fallito: troppa poca gente si è lasciata convincere ad andare a votare. Qui non spuntano partiti antisistema come Alba dorata, l’M5S o la Lega; la maggioranza s’identifica più o meno col nuovo sistema. Qui la corruzione è combattuta molto meglio che altrove all’Est, con un corpo di polizia speciale (una specie di Fbi locale anti-tangenti) che fa paura a tutti e una polizia tributaria non meno seria di quelle svedese o tedesca. «Al momento qui tutto va bene», dice Adam Michnik, veterano del Sessantotto e poi dell’Ottantanove. La nuova Polonia è già oggi un paese che dal punto di vista geopolitico, economico e militare conta in Europa più della Spagna. Un paese in attivo commerciale, grazie soprattutto all’export industriale.
Eppure quest’anno e nel 2015, in occasione (rispettivamente) di elezioni europee, poi presidenziali e politiche, il paese è chiamato a scelte importanti: continuare sulla via della crescente integrazione nell’Ue puntando a entrare nell’euro e approfondendo la relazione speciale con Berlino, come propongono l’attuale premier Donald Tusk e il ministro degli Esteri Radosław Sikorski; o prendere le distanze dall’Europa germanocentrica, come suggeriscono gli alti esponenti del PiS (Prawo i Sprawiedliwość, Diritto e giustizia), l’opposizione nazional-conservatrice guidata da Jarosław Kaczyński.
Dalla risposta a questo dilemma dipenderà in certa misura il futuro del Vecchio Continente. Già oggi i sondaggi indicano il PiS in vantaggio e rivelano che una maggioranza dei polacchi nelle storiche «due Polonie» (quella moderna e globale delle città e quella tradizionale delle campagne) rigetta l’ingresso nell’euro. Un «no» polacco alla moneta unica sarebbe uno schiaffo non da poco per la Banca centrale europea, per il rating della divisa comune e per la Germania.
2. Un tale peso geopolitico della Polonia in Europa davvero non era scontato, viene da pensare passeggiando nel prospero centro di Varsavia tra negozi di lusso, auto di grossa cilindrata e la filiale Ferrari che occupa l’ex sede del Partito comunista. Non era scontato quando nell’Europa divisa, col Muro di Berlino ancora in piedi e Gorbačëv contestato a Mosca dai falchi sovietici e dai paesi satelliti, da Honecker a Ceaușescu, qui sulla Vistola accadde qualcosa: con il consenso dei «quattro generali» e addirittura di Wojciech Jaruzelski, capo del Consiglio militare di salvezza nazionale al potere dal golpe del dicembre 1981, l’intellettuale cattolico liberale Tadeusz Mazowiecki, amico critico di papa Wojtyla, fu chiamato a guidare il primo governo liberamente eletto.
Oggi nel Sejm, il parlamento polacco, regna un’atmosfera tranquilla: liberali al governo e nazional-conservatori all’opposizione. Da un’elezione all’altra tutto può cambiare, come nel Regno Unito, in Giappone o in Canada. Da un gruppo parlamentare all’altro, chiunque ti riceve tranquillo esponendoti le sue opinioni e i piani dei due schieramenti per il futuro. È qui, nel bianco edificio che dall’esterno si indovina dominato da un emiciclo, che sono state raccolte molte delle interviste e delle testimonianze presenti in questo numero di Limes.
Ma in quel giugno del 1989, mentre in un mondo ancora senza Internet e quasi senza cellulari giungevano da Pechino le notizie del massacro di Tiananmen, da Praga quelle degli arresti di massa condotti dalla Stb e da Bucarest quelle delle retate compiute dalla Securitate, Mazowiecki si presentò ai nuovi legislatori. Fu un discorso impietoso, lo ascoltai seduto nei banchi del pubblico in piccionaia accanto al generale Czesław Kiszczak, ministro dell’Interno uscente e numero due del Wron (Wojskowa Rada Ocalenia Narodowego, Consiglio militare per la salvezza nazionale). Sorrideva contento, il generale, ascoltando l’ex nemico Mazowiecki pronunciare la priorità assoluta: «Dobbiamo colpire al cuore l’iperinflazione galoppante al 2.200%, o l’iperinflazione finirà per uccidere il nostro paese».
Sorrideva il generale Kiszczak, senza rilasciare commenti. Gli leggevi negli occhi il ricordo della rivolta non violenta di Solidarność, contro la penuria sistematizzata, che passeggiando nella grigia e triste Varsavia di ieri saltava agli occhi. Cominciando dalle splendide e dignitose ragazze polacche: andavano all’università o al lavoro con una borsa piena di mele regalate o comprate a poco prezzo dai contadini, per combattere i morsi della fame. Quelle mele simboleggiavano il fallimento del socialismo reale. Era una Varsavia in cui all’ingresso degli hotel per occidentali medici e professori universitari mendicavano aspirine o antibiotici per figli o nipoti malati quella in cui Jaruzelski lanciò il golpe «con il cuore pesante» per evitare un sanguinoso intervento armato sovietico e tedesco-orientale, come mi ha confessato di recente».
3. Oggi il governo di Donald Tusk (all’opposizione durante l’adolescenza, giovane esponente della minoranza dei casciubi concentrata attorno a Danzica e immortalata da Günter Grass nel Tamburo di latta) appare in difficoltà e questo condiziona le scelte geopolitiche future del più «pesante» tra i paesi della Mitteleuropa. Si colgono segni di stanchezza verso l’attuale maggioranza nell’opinione pubblica e nell’economia: sotto il coperchio la pentola bolle. La coalizione tra Piattaforma civica e Psl (Polskie Stronnictwo Ludowe, Partito popolare polacco), al potere dal 2007, registra un preoccupante calo di popolarità. La prospettiva di un cambio di maggioranza dai liberal-europeisti (e grandi amici della Germania merkeliana) ai nazional-conservatori preoccupa molti in Europa: da Berlino a Parigi, da Londra a Roma. Il PiS annuncia infatti revisioni fondamentali della postura geopolitica polacca, se vincerà.
Eppure, pochi altri governi nell’Unione Europea possono vantare simili successi economici: la crescita è altalenante ma sempre fortemente positiva (6,8% nel 2007, 5,1% nel 2008, 1,6% nel 2009, 4,5% nel 2011, 1,9% attuale, sulla scia delle difficoltà tedesche). Anche i dati fondamentali sono in ordine: il disavanzo è al 3,9% perché i polacchi, avendo una valuta nazionale, hanno pompato liquidità nel 2009 per contrastare la recessione; ma il debito è attorno al 50% del pil, largamente entro i limiti dei criteri di Maastricht e ben al di sotto dei livelli tedesco (80%) e francese (90%). La disoccupazione (11,4%) resta superiore alla media europea (8%), ma ben inferiore ai picchi spaventosi dell’Europa meridionale. «La Polonia resta il vero paradiso degli investitori nell’Europa centrale», scrivono le attente analisi della Frankfurter Allgemeine: addio al primato ungherese, poi ceco e slovacco.
Non sono solo i nuovi ricchi a profittare dell’economia di mercato. Sono soprattutto imprenditori e ceto medio, classi giovani ma ambiziose, colte e temerarie. Le quattordici zone economiche speciali dove il capitale globale investe in regime fiscale privilegiato, soprattutto attorno a Cracovia, Wrocław, Poznań e Varsavia, apportano fondi esteri per 14 miliardi di euro all’anno. La Borsa di Varsavia, la prima dell’Europa centro-orientale, sta per rilevare quella di Vienna e punta a costruire una realtà finanziaria da City londinese nell’Est. Una sfida alla Russia di Putin e ai suoi satelliti, sostenuta dai numeri: l’interscambio Germania-Polonia vale circa il doppio di quello Germania-Russia, malgrado la crescita dell’import tedesco di gas sull’onda dell’addio al nucleare; la spesa pro capite polacca per istruzione batte quella della Germania, come attesta l’enorme quantità di lauree e dottorati sfornati ogni anno da un migliaio di università e istituti superiori, specie nelle discipline decisive per l’economia globale.
Appiattirsi sulla Weltanschauung dell’Europa germanocentrica è errato, suggerisce però Krzysztof Szczerski, tra le voci più importanti del PiS. Un sonoro schiaffo alla strategia diplomatica che il giovane ministro degli Esteri Radosław Sikorski illustrò a sorpresa a Berlino, dicendo di temere una Germania inerte molto più di una Germania forte. Secondo l’opposizione, occorre invece un riorientamento della politica estera, che pensi alla Polonia non più come paese sempre più integrato nell’Ue (e domani nell’Eurozona), bensì come potenza regionale. «La politica verso il nostro Est cambierà in caso di cambiamento del governo a Varsavia», spiega Paweł Kowal, una delle menti del centro-destra nazional-conservatore. «Pensiamo ad accordi di associazione all’Ue con la Georgia; per la Moldova giudichiamo addirittura maturi i tempi per l’abolizione dei visti».
La Polonia giudica i suoi vicini orientali secondo valori occidentali, non in base al Trattato di Maastricht e alle idee di Bruxelles, suggerisce in sostanza Kowal: guarda a temi come lo Stato di diritto, l’indipendenza della magistratura, la condotta di polizia e guardie di frontiera. Mentre nel Parlamento europeo, dopo l’elezione di Hollande e la forte riconferma di Angela Merkel, tutto è cambiato. Adesso il cancelliere tedesco è di gran lunga la persona più potente e la Polonia deve tenerne conto. Per Varsavia l’interrogativo principale è se una Merkel forte sia un bene o meno. Certo Angela ha contatti con Tusk, che secondo Kowal è incapace di adeguarsi al nuovo contesto europeo. Accuse facili, queste: ignorano che nel Centro-Est dell’Unione la Polonia di Tusk è non solo una «tigre» economica, ma anche il paese politicamente più stabile. Molto più della Repubblica Ceca senza maggioranza, della Slovacchia in mano al cauto e astuto populista Robert Fico, dell’Ungheria ultranazionalista di Viktor Orbán.
4. Il riorientamento geopolitico sembra una certezza in caso di vittoria dell’opposizione alle europee di quest’anno e alle politiche e presidenziali del 2015. Sarà un problema serio per Berlino, ma anche per l’intera Unione Europea e al limite per la Nato. Durante la guerra russo-georgiana del 2008, la Polonia dei gemelli Kaczyński appoggiò Tbilisi senza riserve e secondo diverse fonti assicurò alle piccole Forze armate georgiane addestramento e armi.
In generale, i nazional-conservatori non sposano l’idea di una crescente integrazione europea. Qui risorgono le antiche divisioni interne alla politica e alla società polacche tra pragmatici e idealisti, tra romantici e rassegnati, tra europeisti e patrioti nostalgici. Uno spartiacque che dai secoli d’oro del Regno di Polonia e Lituania, fino alle tragiche spartizioni del paese tra Prussia, Austria e Russia zarista, ha segnato costantemente la storia polacca.
Anche il ruolo della Chiesa polacca – per secoli custode di lingua, cultura, e identità nazionali – è cambiato a fondo con la democrazia, non sempre in meglio. Al punto che la Conferenza episcopale polacca si fa influenzare dagli integralisti di Radio Maryja e traducendo i discorsi di papa Francesco quasi li censura, come per dare a intendere (mentendo) che in Vaticano non sia cambiato nulla. Un regalo avvelenato che la patria di Karol Wojtyła, ieri motore della rivoluzione che rovesciò l’Urss e oggi locomotiva del nuovo Est, proprio non merita.
Le obiezioni dei conservatori non risparmiano il rapporto con la Russia. Mentre Adam Michnik, padre della rivoluzione del 1989, elogia il carattere «calmo, costruttivo e realista» impresso dal governo Tusk alle relazioni con il Cremlino e mette in guardia dalla «russofobia isterica» del PiS, la destra solleva obiezioni: «Non dobbiamo aspettarci miglioramenti finché l’era Putin durerà», osserva Kowal. Ai gesti amichevoli di Tusk il Cremlino sinora non ha risposto in modo convincente, né prima della sciagura aerea di Smolensk né dopo. Una pagina aperta, quella di Smolensk: tra accuse della destra polacca, un film in uscita a Varsavia che adombra l’ipotesi del complotto e la mancata collaborazione nelle indagini da parte russa, il tragico incidente aereo resta un macigno sulla via della riconciliazione tra i due paesi.
A breve dunque, la maggioranza di governo – e con essa le strategie fondamentali della Polonia – potrebbe cambiare. Tocca anche all’Europa aiutare Varsavia a evitare bruschi strappi. I tradimenti storici dell’Occidente – dal settembre 1939, quando Parigi e Londra ignorarono il patto di non aggressione e di assistenza reciproca con Varsavia abbandonandola a Hitler e a Stalin, fino a Jalta, dove la Polonia, quarto belligerante della coalizione alleata per soldati e armi, fu lasciata in preda all’espansionismo staliniano – restano vivi nel ricordo. Varsavia ha ripetutamente smentito i pessimismi storici (spesso un po’ razzisti) della Germania verso la Polonia. Oggi con il boom economico, ieri con la sua capacità di risorgere dopo esperienze dolorose e tremende, di cui l’aggressione nazista-sovietica e il regime filo-russo dopo il 1945 sono solo le ultime.
C’è da sperare che del passato più recente della Polonia restino anche immagini come quella in bianco e nero di Lech Wałęsa sorridente all’ospedale militare, al capezzale dell’ex nemico moribondo Jaruzelski.
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I MUSCOLI DI VARSAVIA
Accade spesso che volino insieme in missione sul Baltico gli ex nemici della battaglia d’Inghilterra: Eurofighter freschi di consegna con la croce nera della Luftwaffe, moderni F-l6 dell’ultima generazione (Block 52, quelli con avionica e armi dei miglior livelli dell’Usaf) col quadratone biancorosso delle Siły Powietrzne, o Polish Air Force nel gergo quotidiano della Nato.
Missioni difficili, geopoliticamente molto delicate: polacchi e tedeschi assicurano di solito, a rotazione o insieme, la sicurezza dei cieli delle tre repubbliche baltiche, paesi Nato privi di aerei da combattimento o contraerea. Può capitare di tutto, da intrusioni di ricognitori troppo curiosi della V-Vs di Putin, fino ai cargo Il’jušin Il-76 siriani che puntano su San Pietroburgo per caricare armi per le forze di al-Asad e dimenticano di registrare il passaggio sul Baltico. Roba da nervi saldi, un minimo errore e capita il peggio.
Al rientro, polacchi e tedeschi, sulle fusoliere rispettivamente gli emblemi di squadriglia del Barone Rosso o della celebre «squadriglia 303», gli Hurricane e Spitfire polacchi della Royal Air Force, duellano per training sulle acque baltiche, poi si rilassano con una birra al pub dell’aeroporto tedesco o polacco più vicino. Collaborazione e integrazione con l’ex nemico, divenuto dopo il 1989 ma soprattutto con Tusk partner geopolitico e militare essenziale, funzionano anche così. E con reparti terrestri integrati e missioni navali comuni nel Baltico.
Piccole ma ben ammodernate, ottimi livelli d’addestramento, le Forze armate polacche sono di gran lunga le più forti, tecnologiche e moderne nella parte Est dell’Europa centrale, insomma oltre l’ex cortina di ferro, «dal Baltico ai Balcani, da Berlino a Trieste». Anche il loro crescente ruolo, con due impegni di integrazione forte con gli alleati – il primo con la Bundeswehr di Angela Merkel, il secondo con il blocco di Visegrád, cioè la mini-Nato regionale che unisce Varsavia, Praga, Budapest e Bratislava – la dice lunga su ambizioni e ruolo geopolitico sempre più centrale della Polonia, cerniera tra settori della Nato e piccole-medie potenze dai confini problematici come Ucraina e Bielorussia.
Cerniera e faro della democrazia, con le luci mediatiche puntate verso Minsk, Kiev, Mosca e gli altri resti dell’ex Urss, Varsavia è il centro dell’immigrazione politica e dei media (radio, tv, cartaceo e online clandestini) di Bielorussia, Ucraina o del resto dell’impero putiniano. «Qui parla Varsavia, la voce libera della vostra nazione», quella frase diffusa ogni sera nell’etere e online ricorda molto il lontano Hallo, this is London calling di Radio Londra che consolava i cuori nell’Europa occupata da Hitler. Con i corsi di politica e le missioni segrete di agenti polacchi istruttori di democrazia a Minsk, Kiev e nel Caucaso meridionale, l’ambizione e il ruolo militar-geopolitico si mostrano ancor più evidenti.
Vediamo le forze. Circa 140 aerei da combattimento (l’orgogliosa Armée de l’Air francese ne ha ormai appena 60-80 in più), mille carri armati tra cui spiccano i moderni Leopard 2 tedeschi forniti da Berlino a prezzi stracciati, fregate lanciamissili ex americane, U-Boot norvegesi analoghi ai modelli in servizio nella Bundesmarine, diversi elicotteri anticarro o per il trasporto di commando, russi o sviluppati in casa con l’aiuto di Eads e della tedesca MBB, corpi speciali di prima scelta. Ecco le strutture principali delle Forze armate polacche, tutte sempre più integrate in piani bilaterali con Berlino, a quattro nel Gruppo Visegrád e generalmente nel Comando Nord della Nato. Scelte strategiche che hanno segnato un cambiamento di fondo nel modo di pensare dei vertici militari e politici.
La dislocazione delle basi principali indica chiaramente una strategia difensiva a riccio e il contrasto tra l’integrazione con la Bundeswehr e la permanente, anzi forse crescente, sfiducia verso la Russia di Putin e la Bielorussia di Lukashenko. Puntando sull’autonomia dei jet e sulla capacità di farli rifornire in volo, infatti, molte delle basi degli aerei più moderni, gli F-l6, sono piuttosto a ovest o comunque abbastanza lontani dal raggio d’azione dei Sukhoj russi, bielorussi, ucraini, cioè a Poznań-Krzesiny e a Łask, tra Łódź e Częstochowa.
Lo stesso vale per le principali e più moderne unità corazzate o meccanizzate, con i Leopard e i T-72 russi ammodernati con tecnologie occidentali, spesso dislocati più vicini alla Germania. Questo per operare in maggior coordinamento con i tedeschi e costituire bersagli ipotetici più lontani, più problematici per autonomia e costi di missione delle aviazioni tattiche russa, bielorussa e alla peggio anche ucraina. Le basi della Marina, vitali per la Nato nel Baltico, sono a Świnoujście, a un passo dal confine tedesco, e a Gdynia, appena a ovest di Danzica. Più sparse sul territorio le unità dei reparti speciali: il Grom, il reparto d’élite più famoso nella Nato, è diviso tra Varsavia e Danzica, i fucilieri di Marina del Formoza a Gdynia, il Nil a Cracovia. Con frequenti missioni multinazionali, dal Kosovo alla Bosnia all’Afghanistan, e la nascita di una capacità di ponte aereo con i sempre validi C-130 Hercules.
È un processo veloce e in continuo divenire quello dell’ammodernamento e dell’integrazione delle Forze armate polacche nella Nato, con l’acquisto di nuove armi spalmato negli anni per non toccare il rigore di spesa e con un particolare accento sulla cooperazione rafforzata e integrata con Berlino e il ruolo di leader regionale affiancato nel Gruppo di Visegrád.
Una strada ancora lunga, con compromessi continui tra piani di weapons procurement ed esigenze di economia di bilancio. Ma è certo che nel 1989, all’atto della svolta, nessuno si aspettava che un paese allora divorato dall’iperinflazione (al 2.200% annuo) potesse acquisire un ruolo geopolitico di rilievo anche sul piano militare.