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 2014  gennaio 30 Giovedì calendario

IL VERO LUPO DI WALL STREET


Quando Rana Foroohar di Time gli ha chiesto se si sentisse il vero lupo di Wall Street, Carl Icahn ha risposto così: «Sono un lupo e sono di Wall Street». Senza dire sì. Per furbizia, per ironia, per intrigo, per provocazione. Perché Icahn non ha i tratti di Leonardo DiCaprio, né la storia criminale di Jordan Belfort. Il punto di incontro è l’audacia che svolta nell’azzardo. Da quarant’anni rischia sempre un po’ più degli altri, si spinge fino a un limite che si trasforma in numeri da capogiro: 20,3 miliardi di dollari di patrimonio (il che lo fa l’uomo più ricco di Wall Street), e una crescita del 201 per cento della Icahn Enterprises, la società con la quale si muove comprando azioni delle aziende in cui crede e vendendo quelle di chi non lo intriga più. Non è mecenatismo, sono soldi per fare altri soldi. Icahn a 77 anni è il raider più pericoloso e ambizioso del mercato: oggi agita Wall Street e Main Street con la sua partecipazione in Apple. Un uomo così con in mano 3 miliardi e passa di un’azienda così è un combinato disposto che può cambiare la storia. Perché lui è uno che entra e si muove con il peso di chi ingombra. La dinamica è sempre la stessa: rastrella azioni, comincia a far sentire la sua presenza, poi aumenta, aumenta, aumenta, fino a raggiungere quella percentuale per cui non è più possibile non fare davvero i conti con lui. Qui gioca l’altra «fiche»: o gli aprono le porte dei consigli di amministrazione delle società nelle quali investe o lui continua a comprare. «Fiche» è la parola esatta. Perché in fondo è da lì che parte quasi tutto. Da una, due, tre, quattro mani di poker. Fu con le carte che si finanziò una parte degli studi a Princeton. Veniva dalla working class del Queens: famiglia con poche possibilità. «Nella sua vita, mio padre non ha speso un centesimo» ha detto recentemente Icahn. «Quando stavo per finire il liceo mi fece solo una promessa: “Se sarai ammesso in una grande università privata, ti darò i soldi per la retta e per l’alloggio”. Io gli chiesi: e come farò per mangiare? E lui: “Questo sarà un problema tuo”». Entrò a Princeton, primo studente proveniente da una scuola pubblica. Si iscrisse a medicina e un lavoro lo cercò per il motivo opposto a quello del tipico sogno americano: non per pagarsi gli studi, ma la sopravvivenza. Il posto era da factotum in un club su una delle spiagge di Long Island. Il poker arrivò lì: «Non avevo idea di come si giocasse. Comprai tre libri, li lessi in una settimana. Finiti quelli sapevo giocare dieci volte meglio dei miei possibili avversari».
Cioè professionisti, manager, businessmen che frequentavano il club. Princeton portò una laurea in filosofia, poi si iscrisse a medicina alla New York University ma la lasciò quando ebbe l’occasione di entrare alla Dreyfus.
Ecco Wall Street. Vista da zero a 20,3 miliardi di dollari, dal broker al padrone, al lupo. Si compra per guadagnare e per contare. Soprattutto, come detto, si compra fino a quando non ti fanno sedere a tavola. Sanno tutti com’è. «Con lui la pace è meglio della guerra» raccontano i manager di tutte le aziende in cui investe. È vero, anche perché in passato le acquisizioni ostili le ha fatte senza problemi. La più importante fu l’acquisto della compagnia aerea Twa nel 1985 fatto contro il parere dell’intero cda. La prese, ci fece un mucchio di soldi e la vendette piena di debiti. Era il leader della cosiddetta scena dell’«avidità è buona», fatta di raider che negli anni Ottanta si muovevano come padroni del mondo.
Oggi è cambiato tutto, tranne la leadership di Icahn. La scena adesso è quella dei «shareholder activist», autoproclamatisi attivisti del mercato. Cioè: guadagniamo noi, però guadagnano anche gli altri. Così è stato negli ultimi vent’anni: American Real Estate, Bj’s Wholesale, Cigna, Fairmont, Lear, Blockbuster, Motorola, Time Warner. Affari su affari. Se chi ha comprato nel 2000 azioni della sua società rivendesse oggi guadagnerebbe il 1.800 per cento. È sulla scorta di questi risultati che Icahn diventa un caso ogni volta che apre bocca. Esempio: con lo 0,82 per cento delle quote di eBay, ha monopolizzato l’attenzione pochi giorni fa: «Bisogna scorporare il business di Paypal» ha detto. E tanto è bastato per agitare il mercato, i giornali, le tv finanziarie. Si sono chiesti: a che cosa sta pensando Carl? Figurarsi quando il lupo ha ufficializzato l’acquisto di altri 500 milioni di dollari di azioni Apple: Icahn vuole provare a scalare l’azienda più chic e grande del momento? È passato da zero dollari a una quota di oltre 3 miliardi in meno di sei mesi. Si sa che questo costante aumento potrebbe crescere ancora, si sa pure che Tim Cook, il numero uno della Mela, non è il suo uomo preferito. «Sta lavorando bene» ha detto Icahn «ci sono bilanci ottimi e tanti soldi in cassa. Ma Apple non è una banca». Una mazzata sui denti del ceo più invidiato al quale tocca gestire l’azionista più scomodo che ci sia. Perché Icahn non molla e soprattutto non è un fan dei manager. La gran parte delle scalate le ha fatte quando il fondatore o proprietario di quell’azienda non c’era più o s’era defilato. Aggredisce i manager considerandoli l’anello debole perché pensano a sé e non alle aziende. «Fanno errori che costano miliardi e miliardi agli azionisti» è una delle sue frasi più celebri. Guarda caso il rastrellamento di azioni Apple è cominciato dopo la morte di Steve Jobs. Ora sta lì, come uno che prende ogni giorno più campo. Adesso è una forma di pressione, ma nessuno a Wall Street crede che sarà soltanto questo.