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 2014  gennaio 30 Giovedì calendario

IL FISCO ITALIANO RISCHIA UNA DOPPIA PERDITA


Era una fine annunciata, e quello che stupisce tra gli esperti fiscali è che nessuno abbia mosso un dito finora. Che Fiat avrebbe trasferito la propria sede all’estero lo si era capito già nei 2011. Certo, molti pensarono allora agli Stati Uniti: ma andare fuori dall’Europa comporterebbe degli oneri aggiuntivi che il Lingotto ha voluto evidentemente «risparmiarsi». Per questo si scelgono ben due sedi europee: quella legale in Olanda, quella fiscale in Gran Bretagna. La legislazione olandese consente infatti la doppia residenza, che da noi sarebbe vietata. Se l’Olanda conviene dal punto di vista di diritto societario, perché consente ai soci stabili diritti di voto doppi (lo stesso è stato fatto per Cnh Industrial) con un indubbio vantaggio per il socio di controllo Exor, il Regno Unito garantisce un fisco ultraleggero proprio per le aziende di questo tipo.

REDDITI D’IMPRESA
L’imposta sui redditi d’impresa (la nostra Ires) è fissata oggi al 21% (contro il nostro 27,5%) e calerà al 20 nel 2015. Ma c’è da scommettere che i consulenti del Lingotto non hanno certo organizzato tutto questo moltiplicatore di sedi per risparmiare 6-7 punti di Ires. Lo sconto è molto maggiore. Dal 2013 infatti è entrato in vigore il cosiddetto «patent box» che garantisce a chi porta marchi e brevetti una tassazione sui profitti che ne derivano al 10%. Le isole britanniche in questo modo hanno attivato una sorta di calamità per le multinazionali straniere. Dopo la fusione e l’«espatrio» della sede fiscale all’Italia resterà l’imposizione sulla produzione degli stabilimenti italiani. Ma il valore aggiunto portato dal marchio, dalla ricerca, dalla capacità organizzativa, insomma tutta la parte più qualificata dell’attività sarà persa. Il valore di una società, infatti, non è meramente la somma della produzione dei singoli siti produttivi. Gli stessi fiscalisti sostengono che la perdita maggiore per il Paese non va ricercata nel fisco, ma proprio nell’impoverimento della struttura industriale. L’Italia diventa il luogo di produzione di modelli pensati altrove, in stabilimenti la cui organizzazione sarà decisa da una «testa» ormai lontana dal cuore storico dell’azienda. Questo consentirà un domani di chiudere e spostare le produzioni con maggiore facilità di quanto non sia stato possibile in passato.
Per il fisco italiano, tuttavia, potrebbe annunciarsi una doppia perdita. Già due anni fa, infatti l’amministrazione avrebbe dovuto muoversi per cercare di intercettare i piani di Sergio Marchionne e creare delle condizioni per farlo restare sotto le Alpi. Invece nessuno se n’è interessato: l’azienda si è mossa da sola. E naturalmente si è mossa nel momento più vantaggioso. Gli oneri dovuti all’Erario per l’espatrio, infatti, rischiano di venire assorbiti quasi completamente dalle perdite che l’azienda ha registrato negli stabilimenti italiani. Nessun politico, nessun esponente dell’alta dirigenza si è preso la briga di chiarire questa strategia con il management.

LE NORME
Quando un’azienda decide di espatriare, infatti, deve chiudere la partita con il fisco del Paese che lascia rivalutando tutti gli asset e pagando le tasse dovute come se stesse liquidando. Vengono assoggettati a tassazione tutti i plusvalori cosiddetti «latenti», compresi quelli relativi alla tecnologia, ai marchi, all’avviamento. Questa è la regola aurea, ma una fitta rete di eccezioni ha modificato questo regime, rendendolo sempre meno oneroso. Tutto in nome della libera circolazione delle imprese, equiparata nell’Ue a quella delle persone. Il primo dato da stabilire, in questo caso, è il momento preciso in cui la residenza è trasferita, perché il tempo modifica parecchio i valori dei beni materiali e immateriali (si pensi agli andamenti di Borsa). In ogni caso le continue revisioni della normativa hanno stabilito che si definisce certamente il valore da tassare, ma poi si rimanda il pagamento al momento futuro in cui si cederà effettivamente quel bene. Per il momento Fiat non verserebbe nulla.