Cristina Piccino, il manifesto 30/1/2014, 30 gennaio 2014
DONALD RUMSFELD, LA PAROLA DEL POTERE
Chi si aspetta un giudizio definitivo sulla figura di Donald Rumsfeld rimarrà senz’altro deluso. The Unknown Known, in sala dopo la presentazione alla scorsa Mostra del cinema dove era in concorso, non è infatti uno di quei film che ti mandano a casa contento, accarezzando le nostre convinzioni con ciò che si vuole sentire: che i cattivi sono cattivi e i buoni sono i buoni. Lo schema ideologico non appartiene per definizione al cinema di Errol Morris che, al contrario, costruisce le sue investigazioni in modo implacabilmente progressivo, utilizzando conflitti interni e invisibili, slittamento di senso, evidenze rimosse. Così il confronto con l’ex-segretario della Difesa americano, Donald Rumsfeld, fabbricante primario del teorema della guerra in Iraq si gioca sul filo (tagliente) della parola, e dei suoi significati; un piano duplice, che non è solo quello di «verità» e «menzogna», e punta invece alla tattiche manipolatorie di opinioni e pensiero collettivi.
Rumsfeld è responsabile di migliaia di morti in Afghanistan e in Iraq ci dice in buona sostanza Morris, ma senza di lui la guerra ci sarebbe stata lo stesso. The Unknown Known, diviene dunque una riflessione sull’America, e su quella politica «culturale» sviluppata nelle logiche del potere, con al centro uno dei suoi protagonisti più influenti.
Il regista utilizza nella sua indagine diversi elementi, soprattutto i «fiocchi di neve», i promemoria che a migliaia Rumsfeld lasciava «cadere» intorno a sé, in modo da direzionare le opinioni altrui. Questa centralità del linguaggio è evidente già dal titolo, che rimanda a una delle frasi sibilline con cui Rumsfeld ha cercato dall’inizio di motivare l’intervento in Iraq: «Ci sono cose che sappiamo, cose che non sappiamo, e cose che non sappiamo di sapere». Però alla domanda se l’amministrazione Bush era certa che Saddam avesse armi di distruzioni di massa, Rumsfeld allora come ora rimane muto. Ammicca, sorvola, si nasconde tra quelle parole che sa manovrare abilmente, e che in realtà fluttuano sul vuoto. Abilissimo istrione davanti alla macchina da presa, il sorriso che diviene ghigno inquietante nella determinazione da fedelissimo repubblicano, Rumsfeld è maestro nella tattica della sottrazione. Di fronte all’evidenza capovolge le sue stesse frasi, nessuno aveva mai unito Saddam a Osama replica alla domanda di Morris. Eppure gli archivi televisivi dei suoi discorsi pubblici con cui preparava la guerra, ci dicono il contrario.
Se «l’ignoto noto» appare come uno sberleffo lessicale, nel fiocco di neve che apre il film, l’opinione su Saddam e sulle scelte da fare di Rumsfeld è sin troppo chiara: dobbiamo schiacciarlo. Morris va indietro nel tempo, scava negli archivi della giovinezza di quel ragazzo ambizioso, entrato molto giovane in politica, sposato alla stessa donna come dice orgoglioso per sempre. Vicino a Nixon, poi a Ford, di cui è consigliere alla difesa, gli è accanto quando gli sparano addosso. Stessa ossessione nella costruzione del nemico per giustificare l’aggressività nella politica estera e il controllo interno. Prima erano i comunisti, decenni dopo sarebbe diventato il terrorismo islamico. Fedele al potere che nonostante questo lo allontana, Reagan lo manda come inviato speciale in Medio Oriente quando lui si aspettava la promozione a vice presidente. Rumsfeld non si sbilancia, non dà mai giudizi nemmeno quando le cose lo toccano più da vicino. Tutto ha una sua necessità, nessun commento sia davanti al Watergate che alle immagini di Baghdad distrutta, e di una guerra sfuggita da quel «controllo». Smorza, evita, misura, prende le distanze. Sono gli «effetti collaterali», quelli che i governi praticano in dosi massicce, autoassolvendosi. Non è uno che esegue gli ordini, Rumsfeld, lui li dà, traccia la linea che sarà quella della paese, e questo non può ai suoi occhi essere mai sbagliato.
Il terrorismo si diceva. Leggiamo in sovrimpressione al volto di Rumsfeld la definizione che ne dà il vocabolario: «L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore… e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine». Ma anche: «Metodi di pressione culturale e psicologica fondati sull’uso di argomenti semplicistici e intimidatori». Non corrisponde alla sostanza dei discorsi di Rumsfeld sull’Iraq all’America e al mondo? Nel lessico personale dell’intervistato però la parola corrisponde a Osama bin Laden, all’11 settembre, agli attentati, a Saddam.
Perché avete fatto la guerra? insiste Morris, declinando nel sostantivo «voi» la sua presa di distanza. Voi chi? Chiede Rumsfeld. Voi/Noi risponde Morris, l’America. Questo slittamento semantico è anche lo spazio in cui il regista pone il confronto. Che è, appunto, quello della parola, la parola delle menzogne, le parole della negazione, l’assenza delle parole. La Storia è lì, e interroga quelle parole inanellate per confondere che, respinte, si auto annullano. Siamo su un altro piano rispetto al precedente Fog of War, stavolta Morris non «inchioda» Rumsfeld come lì ha fatto con McNamara. Ma questo perché la partita si gioca altrove, e al di là di Rumsfeld. L’orizzonte dell’immagine è anche quel fuoricampo del potere in cui il movimento storico si ripete uguale a se stesso, e ogni lezione del passato rimane inascoltata. Abu Ghraib, Guantanamo che – osserva piccato Rumsfeld – è ancora lì nonostante le promesse di Obama. Non c’è tortura, afferma, eppure testimonianze e rapporti della Croce Rossa parlano di condizioni inumani e torture feroci. Anche questo è un «danno collaterale» naturalmente. Ma nessuna frase dell’ex-segretario, a dispetto della sua abilità, riesce a darne una spiegazione.
Parole. Immagini. The Unknown Known pone delle domande anche allo statuto del cinema come strumento di resistenza alla rimozione, o alla mancanza di immaginazione che governa il fare della politica. Non c’è nulla che glorifichi Rumsfeld, o che gli fornisca un minimo appiglio di calore nella messinscena gelida e essenziale di Morris. La scommessa è tutta in quel rapporto tra parola e immagine, nella costruzione di una faccia pubblica del potere e nel suo capovolgimento. Il mare di parole di carta a cui si appiglia Rumsfeld svanisce, schiacciato da una responsabilità che l’uomo Rumsfeld, a differenza di McNamara non prende neppure in considerazione. L’errore nel suo caso non esiste, eppure è lì, davanti i nostri occhi, in ogni giravolta di quelle sue parole che nonostante gli sforzi verso il contrario, ci rivelano la propria verità.
E con essa interrogano anche chi ascolta, media, informazione, opinione pubblica. La responsabilità diviene anche nostra, cosa che il troppo semplice gioco binario tende a assolvere.