Roberto Mania, la Repubblica 30/1/2014, 30 gennaio 2014
“NOI, MANAGER CRESCIUTI ALLA SCUOLA DELLO STATO”
Franco Bernabè, classe 1948, trentino di nascita, torinese d’adozione, è il “manager carsico”, secondo la definizione del Foglio. Entra ed esce di scena. Oggi è fuori dopo essersi dimesso dalla Telecom presa dagli spagnoli. Sulla scena ha guidato la privatizzazione dell’Eni negli anni Novanta, poi ha difeso, sconfitto, Telecom dall’assalto dell’Opa “padana” di Roberto Colaninno & co. Considera quella del “boiardo” «un’espressione dispregiativa» legata a un’epoca che non c’è più. Incontriamo Bernabè nella sede della sua FB Group, società di investimenti, a Roma poco lontano dal ministero del Lavoro alle prese con l’“affaire Mastrapasqua”, il boiardo della nuova specie, il boiardo post-industriale.
Come è cambiato, Bernabè, il rapporto tra la politica e l’economia tra la prima e la seconda Repubblica?
«Negli anni del dopoguerra il sistema delle partecipazioni statali ha rappresentato una formidabile spinta alla industrializzazione del Paese. L’idea di togliere allo Stato la gestione diretta delle imprese per affidarle ad enti di gestione (l’Iri o l’Eni), separati dalla politica, è stata un’innovazione formidabile. Ce l’hanno
copiata Francia e altri Paesi. In quegli anni ha costituto un modello virtuoso che ha permesso all’Italia di dotarsi di un significativo apparato infrastrutturale, autostrade, energia, telecomunicazioni. Iri ed Eni hanno creato una cultura manageriale ispirata a principii moderni, importati dagli Stati Uniti. Le partecipazioni statali sono state una scuola di management, mentre le imprese private dell’epoca erano organizzate secondo criteri arretrati e paternalistici. Nella Fiat di Vittorio Valletta non c’era un’organizzazione manageriale».
L’epoca che descrive lei non dura moltissimo.
«A cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta la politica avvia il suo controllo pervasivo sulle partecipazioni statali. Si corrompe il sistema. Nell’arco di un decennio degrada tutto. I manager sono molto più deboli. Alla guida dell’Iri arrivano personaggi mediocri come Giuseppe Petrilli, tipico uomo di raccordo con la politica, senza alcuna visione imprenditoriale. Gli anni successivi sono ancora peggio: i fondi neri dell’Iri, lo scadalo Eni Petronim. Gli anni ottanta, il Caf. La politica prende il sopravvento. Fino al 1992, quando con un’azione stranamente coraggiosa, il governo Amato decide di privatizzare».
Probabilmente le privatizzazioni chiudono la grande stagione dei cosiddetti boiardi di Stato. Chi sono stati?
«La trovo una definizione molto strana, dispregiativa. Appartiene a un’altra epoca. Erano gli uomini che la politica metteva dentro le aziende pubbliche per fare da cinghia di trasmissione. Ma c’è da dire che in quella stagione i manager pubblici sono quasi tutti ingegneri».
Cosa vuol dire? Che gli ingegneri sono più condizionabili dalla politica rispetto a un economista, per esempio?
«Il grado della propria autonomia dipende da sé, dalla propria forza, dal proprio carattere. No, ciò che voglio dire è che quella è una stagione nella quale la missione dei manager era fare: autostrade, impianti siderurgici, pozzi petroliferi».
Ci sono ancora i boiardi?
«Dopo il 1992 le cose sono cambiate radicalmente. Per alcuni versi nello smantellamento delle partecipazioni statali si è andati anche troppo avanti. La trasformazione degli enti in spa ha risolto alla radice il problema delle interferenze della politica nella gestione delle aziende».
Lei pensa davvero che oggi i manager che guidano le aziende pubbliche, da Scaroni a Conti, siano così autonomi dalla politica?
«Sono totalmente autonomi. Che qualcuno poi vada a cercarsi alcune sponde è un altro discorso. Guardi, oggi le nostre società partecipate dal Tesoro assomigliano molto al modello delle public company».
Ma non crede che ci sia ancora bisogno di un ruolo pubblico nell’economia?
«Certo. Io credo che sia stato un errore smantellare l’Iri. Tanto che quando mi fu affidata la missione di liquidare l’Eni, io, contro l’opinione del governo, non l’ho voluta sciogliere e l’ho portata alla quotazione. Mi pare che i risultati mi abbiano dato ragione».
Per una nuova stagione di interventismo statale servirebbe anche una politica all’altezza. Considera all’altezza l’attuale classe politica?
«La politica è totalmente scomparsa. Ha rinunciato a esercitare il suo ruolo legittimo nella determinazione delle scelte di politica industriale. Il ministero dello Sviluppo è stato svuotato. L’attività regolatoria in diversi settori è stata lasciata alle Authority indipendenti e le lobby hanno preso il sopravvento in Parlamento».
Si sta riaprendo la stagione delle nomine nelle aziende partecipate dal Tesoro. Le consiglierebbe a manager internazionali del calibro di Vittorio Colao o Andrea Guerra di passare al vertice delle nostre grandi imprese pubbliche?
«Un manager deve conoscere la complessità del business e i meccanismi di funzionamento di un’azienda. O li conosci in profondità o galleggi».
Dunque, non glielo consiglia?
«No, non glielo consiglio. D’altra parte nelle grandi corporation americane il ceo, il chief executive officer, viene scelto dall’interno e il presidente arriva da fuori per esercitare un ruolo di garanzia anche nei confronti degli azionisti».