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 2014  gennaio 30 Giovedì calendario

«CHIAMATEMI INCIPIT» NELL’INIZIO DEL ROMANZO C’È LA NASCITA DELL’UOMO

Da dove nasce la fasci­nazione che provia­mo per l’incipit di un romanzo e per la sua conclusione? La risposta che dà Giuliana Adamo, la stu­diosa cui si deve questo dottissi­mo e ponderoso L’inizio e la fi­ne. I confini del romanzo nel ca­none occidentale (Longo edito­re, pagg. 384, euro 28), è che nel romanzo, legato com’è in qua­lunque sua forma alle passioni umane, le prime righe e le ulti­me­sono quelle in cui l’uomo leg­ge i condizionamenti che il tem­po esercita su di lui, il mistero e l’angoscia di quei confini biolo­gici che deter­minano la pro­pria nascita e la propria mor­te. Un roman­zo nasce e ter­mina, come ciascuno di noi. Il suo veni­re alla luce è duro, come ogni nascita: Louis Aragon sostenne che l’incipit di un libro è l’urto delle parole con lo spazio bianco del te­sto. E la sua fi­ne è definitiva e ineluttabile, come ogni morte. È, sempre secondo Aragon, il si­lenzio che segue la scrittura. Ogni opera di invenzione sorge così, come un’isola vulcanica, tra due misteriosi mari di silen­zio.
Spesso la mia curiosità di letto­re corre all’incipit di un roman­zo per capirne il tono, la portata tematica, le qualità stilistiche. In un buon incipit c’è già tutto.E,di fronte a un romanzo con una gran trama, tante volte mi sono posto la domanda banale ma fa­tale: come andrà a finire? Un ro­manzo, sia esso votato al fantasti­co e al meraviglioso o a descrive­re le vicende umane e la società (la canonica distinzione tra ro­mance e novel dovuta a Walter Scott), non può cominciare e fi­nire dove capita, come, a propo­sito di qualunque narrazione, già annotava Aristotele nella sua Poetica.
Prendiamo l’ Iliade e l’ Odis­sea, i due massimi racconti miti­ci d­a cui discende tutto l’immagi­nario occidentale. L’Iliade ha un incipit che spicca per memo­rabile nettezza, e che va subito in media res: «Cantami, o Diva, del Pelide Achille /l’ira funesta che infiniti addusse/ lutti agli Achei...». Vi vediamo Achille e la sua ira, la guerra e le sue stragi, i temi che attraverseranno tutto il poema. Più vago, quasi divagan­te, l’incipit dell’ Odissea. «L’uo­mo ricco di astuzie raccontami, o Musa». L’uomo chi? Il «divino Odisseo» verrà nominato soltan­to al ventunesimo verso. E que­sta vaghezza anticipa il tono in­cantatorio e il tema del viaggio che sono decisivi nel secondo poema omerico. Le conclusioni invece sono simili in entrambi le opere: gli onori resi a Ettore do­matore di cavalli e i moniti di Ate­na per indurre Odisseo a smette­re di combattere sono pervasi da un senso di tregua, di pacifica­zione.
Per venire al romanzo moder­no, il Tristram Shandy di Lauren­ce Sterne (1713-1768), opera quintessenziale e onnicompren­siva, ha già in uno straordinario incipit tutta la sua poetica del­l’ironia e della digressione: l’io narrante comincia ab ovo dai ge­nitori che stanno per generarlo, e poi impiega ben due libri su no­ve (in tanti è diviso il romanzo) per arrivare alla sua stessa nasci­ta. La fine è invece una semplice interruzione, riprendendo il te­ma del coitus interruptus inizia­le. Sul fronte opposto all’ironia sterniana, uno degli incipit più memorabili del romanzo mo­derno è quello del Moby Dick di Herman Melville (1819-1891): «Call me Ishmael». «Chiamate­mi Ismaele». La voce narrante di questo prodigioso libro mitico e sapienziale non dice il suo no­me: chiede al lettore di essere chiamato così.Con una solenni­tà bibl­ica in cui l’io che parla tra­valica se stesso, in una prospetti­va metafisica che sarà quel­la di tutto il ro­manzo. Quan­to alla fine, è una delle più belle della let­teratura uni­versale: «Poi tutto crollò, e il grande suda­rio d’acqua tornò a mareg­giare come aveva fatto cin­quemila anni fa». Tra Dante e Poe. Un incipit formidabile è quello dei Ma­lavoglia di Giovanni Verga (1840-1922): «Un tempo i Mala­voglia erano stati numerosi co­me i sassi della strada vecchia di Trezza». Come individua la Ada­mo, una sola riga contiene le ri­sposte alle classiche domande Chi? Dove? Quando? E vengono anticipati i toni tipici dell’autore catanese, la sentenziosità ruvi­da, corale, polifonica, in cui il ve­rismo alla Zola si tinge di note epiche e popolaresche, esisten­ziali, che fecero apprezzare IMa­lavoglia a D. H. Lawrence e a Sar­tre. La conclusione è in linea con la impersonalità oggettiva del­l’inizio.
Diversi invece appaiono, al­meno nella forma, l’incipit e l’explicit dell’ Ulisse di James Joyce (1882-1941). All’inizio Buck Mulligan e la sua netta epi­fania dall’alto delle scale, con quel «Introibo ad altare Dei» che preannuncia la colossale sostan­za dissacrante e demitizzante di tutta l’operazione joyciana. Alla fine la voce di Molly, la moglie del protagonista Leopold Bloom, nel suo torbido flusso di coscienza impastato di deside­rio carnale. Che propriamente non è una fine, ma un continu­um incontrollabile e insensato. Credo che oggi il romanzo dovrà ritrovare la capacità di costruire grandi storie che stiano tra una nascita e una morte. Un incipit è una promessa. «La marchesa uscì alle cinque». Perché no? Di­pende dove, come, perché, e co­sa andava a fare. Ne può uscire un romanzo meraviglioso, an­che se Valéry non ci credeva.