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 2014  gennaio 30 Giovedì calendario

L’UOMO PIU’ VELOCE DI ROMA

Tutto vestito di bianco correva, volava. Undici secondi netti sui cento metri. Era il più veloce di Roma. Lo vedevano allenarsi ogni giorno sulla pista della Farnesina, scatti, allunghi, ripetute e poi ancora scatti. La tessera del partito fascista l’aveva presa nel ’21, a quattordici anni. Poi quel ragazzo diventò un uomo, poi ancora un altro uomo, alla fine un uomo morto. Tradito da una spia, un collaborazionista delle Ss. Chi gli stava accanto non lo chiamava più con il suo nome, solo con quello di battaglia: Fiamma, comandante Ruggero Fiamma.
Sono quattro le lapidi che lo ricordano nella sua città. E a lui è dedicata anche una grande strada che da piazza Albania arriva in via Marmorata, al Testaccio. In pochi però conoscono la sua vita, anzi le sue tante vite.
Chi era quel giovanissimo atleta che abitava a un passo dalla casa del Duce, che nel ’27 ebbe l’onore di parlare davanti a Sua Eccellenza Augusto Turati – il segretario del Pnf che sostituì Farinacci dopo il delitto Matteotti – e che poi fu giustiziato il 24 marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine? Chi era Manlio Gelsomini, il più veloce di Roma?
Indagando fra le pieghe della sua esistenza e raccogliendone ogni piccolo e grande segno, c’è chi ha scoperto quasi tutto su un italiano che ha cambiato se stesso nel cuore della guerra. Ricordo dopo ricordo, con lo sport che in ogni pagina si confonde con la storia, è nato questo libro - Manlio Gelsomini. Campione partigiano (Edizioni Gruppo Abele, pagg. 174, euro 14,00) - firmato da Valerio Piccioni, tanti Giri d’Italia e tanti Tour de France seguiti per La Gazzetta dello Sport e un’ultima passione che l’ha portato a ricostruire «il percorso personale e politico di un giovane che, come altri della sua generazione, le circostanze e gli ideali trasformarono suo malgrado in un eroe».
Dai trionfi con la maglia della Nazionale a Basilea del 1930 a una laurea in medicina, dal palcoscenico
degli stadi all’arruolamento come capitano nel 79° Battaglione Camicie nere. Sembrava tutta dritta la strada di Manlio Gelsomini. Fino a quando, un giorno, qualcuno lo sospese «precauzionalmente dal grado». Non ci fu nulla di inatteso. Prima Gelsomini aveva prestato la sua opera di medico al Policlinico Umberto I, poi in un ambulatorio in piazza dell’Immacolata, a San Lorenzo. Come assistente tirocinante aveva Giorgio Piperno, un ebreo in quell’Italia dove Mussolini aveva appena fatto pubblicare «Il Manifesto della Razza». Era già dentro un’altra vita Manlio Gelsomini. E un’altra ancora stava per cominciare.
Il suo nome, che da qualche anno non compariva più sulle cronache dei quotidiani sportivi, ora non c’era neanche nell’elenco dei medici chirurghi della Guida Monaci. Cancellato. È il 1942, il «dottor Manlio Gelsomini » non è più un fascista. «Non sono nato per una vita facile, io. Amo l’imprevisto e nell’assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero... Vado verso l’ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto», scrive nel suo diario custodito al Museo storico della Liberazione di Roma.
Dopo l’8 settembre, il giorno dell’armistizio, è già nata la «banda Gelsomini». La prima volta si riunisce a Castel Sant’Elia, in provincia di Viterbo. Fra i partigiani c’è anche don Domenico Antonazzi, uno dei preti della Resistenza, c’è un romagnolo – Pasini – di Cervia, c’è Maria Teresa Anselmi, la figlia di un vecchio socialista.
Sabotaggi, attacchi contro colonne militari naziste, la raccolta d’informazioni da passare agli Alleati, il comandante Fiamma che spadroneggia sul monte Soratte e il professor Mario Buratti che ha il suo quartiere generale alle pendici del Cimino. Sono giorni, mesi travolgenti. E Gelsomini che corre dalle montagne a Roma e da Roma alle montagne, corre più veloce di tutti come quando scendeva in pista.
Poi una cena fra l’11 e il 12 dicembre del 1943, tanti partigiani insieme, c’è Gelsomini, c’è Buratti, c’è anche Mario Pistolini, romano ma residente a Rio De Janeiro, sedicente produttore cinematografico a Londra, ricercato a Parigi per una truffa ai danni di una ricca dama milanese, in contatto con i partigiani ma al soldo delle Ss. Di lui si fidano e lui fa cadere in trappola prima il professore poi il medico amico degli ebrei. Valerio Piccioni scava nel passato di Pistolini e svela la sua attività di doppiogiochista collegandolo ad altri personaggi – uno per esempio è Mauro De Mauro, il giornalista de L’Orafatto scomparire dalla mafia nel
settembre del 1970 a Palermo, fascista convinto nella Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese e assolto «per insufficienza di prove» dall’accusa di collaborazionismo con i nazisti – fino a raccontare la cattura di Manlio Gelsomini il 13 gennaio 1944. È sempre quel delatore, Pistolini, che lo vende ai tedeschi.
Viene rinchiuso nel carcere di via Tasso. È stremato, continua a scrivere sul suo diario: «Anche il mio fisico soffre molto. Il cibo è insufficiente e sono denutrito e
stanco. Ho fame, sempre fame. Non ho quasi più la facoltà di pensare». Riempie pagine dove gli stati d’animo mutano rapidamente, come i pensieri. Lì dentro affiora la sua tempra e affiorano le sue fragilità, le sue incertezze ideologiche, anche la sua paura.
Da via Tasso Manlio Gelsomini uscirà soltanto settantasei giorni dopo, qualche ora prima c’era stata l’azione partigiana di via Rasella contro il Polizei-Regiment Bozen. Il 24 marzo, la furia di Berlino e la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, 335 civili e militari italiani massacrati. Fra loro anche il più veloce di Roma. Solo alla fine della guerra una sua foto comparirà ancora una volta su un giornale per rendergli onore. Lui sui blocchi, in posizione di partenza allo stadio dei Marmi.