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 2014  gennaio 30 Giovedì calendario

QUELLI CHE VOLEVANO ESSERE COME TOTTI

«E chissà quanti ne hai visti e quanti ne ve­drai di giocatori | che non hanno vinto mai | ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro | e adesso ri­dono dentro a un bar...». Dentro questi versi nostalgici de La leva calcistica del ’68 di Fran­cesco De Gregori, c’è la storia di tanti ragazzi che si sono illusi di poter sfondare con il calcio e che, invece, ora si ritrovano a fare i conti con la delusione, per via di un sogno vissuto a metà e ben presto svanito nel nulla.
Un docufilm, Zero a Zero, scritto e diretto da Paolo Geremei, racconta tutto questo. Ieri se­ra al Piccolo Apollo di Roma l’ultima delle proiezioni del film che nell’ultimo anno è rim­balzato come un pallone da un festival all’al­tro (vincendo cinque premi) della provincia italiana, in attesa di una distribuzione vera, quanto doverosa. Una pellicola di grande im­patto emotivo, ma soprattutto estremamente educativa che andrebbe mostrata a partire dai ragazzi delle scuole calcio. Una visione possi­bilmente congiunta con i loro genitori, troppo spesso contagiati da una Febbre a 90’ che li fa sperare, per l’ambizione talora delirante, di cre­scere in casa il futuro Francesco Totti.
Il film di Geremei ha per protagonisti tre ex ta­lenti: Daniele, Marco e Andrea, tutti classe 1977, che con Totti appunto hanno giocato sul serio e condiviso con il “Pupone” nazionale vittorie e speranze nelle giovanili della Roma. Ma leg­ge spietata del circo professionistico del pallo­ne, vuole che solo “uno su mezzo milione ce la fa”. E quell’uno, era proprio il loro ex compa­gno, capitan Totti. La storia di cuoio insegna che c’è chi con i propri piedi ha trovato l’oro, e a chi invece è rimasto solo il rimpianto della polve­re di stelle scivolata in fretta dalle mani.
L’incipit di questo film parte proprio da un pallone che scivola dai guanti da portiere di quella promessa sicura che è stato Andrea Giulii Capponi. «Un giorno, passo davanti a u­na drogheria qui sotto casa, zona Vaticano, e con sorpresa vedo che il commesso è proprio Andrea – racconta Geremei –. Giulii Capponi nel quartiere Portuense era un piccolo mito. Il bello, l’idolo delle ragazzine, uno invidiato dai suoi coetanei perché tutti si aspettavano che da un momento all’altro avrebbe fatto il debutto in Serie A e sarebbe diventato ricco e famoso. E invece…».
Invece, triplice fischio anticipato. E lo stop non arriva per una papera tra i pali, ma per una “misteriosa” decisione presa da Carletto Maz­zone, nel ritiro della Roma, a Lavarone, estate 1994. Con la prima squadra era entrato nel tem­pio del Bernabeu - amichevole con il Real Ma­drid - , poi la “punizione” e il ritorno nella Pri­mavera. Da quel momento nulla sarebbe sta­to più come prima. «Andrea ad inizio campionato non venne con­vocato come terzo portiere, al suo posto scel­sero Di Magno, un altro di cui si sono perse le tracce», spiega Geremei. Un anno ancora di Primavera, poi Giulii Capponi scende nel co­no buio del dilettantismo. «Sono finito a Ladi­spoli e in altre piccole società del litorale ro­mano e a 25 anni ho smesso», dice l’Andrea di oggi che lavora tutto il giorno in quel negozio e l’unica porta che difende ancora è quella del­la rappresentativa del Vaticano. In più allena i giovani portieri, ma ironia della sorte per un ex promessa romanista, quelli della Lazio.
Solo la Roma nel cuore e nella testa di Marco Caterini quando nella Nazionale Under 15 di­venne il portiere titolare, e il suo vice era un certo Gigi Buffon. «Premesso che Gigi è il più grande portiere del mondo, però la mia espe­rienza mi insegna che nel calcio non sempre è sufficiente essere bravi per sfondare. A volte basta un incidente, come è capitato a me, per cancellare in un attimo anni interi di sacrifici», dice Marco che nell’estate dei suoi 18 anni si ritrovò a piedi, parcheggiato in una delle tan­te squadre satellite della Roma. «Mi davano an­che 300mila lire al mese, ma dopo essere sta­to ad un passo dalla Serie A, mi ritrovavo a ri­cominciare dalla serie D».
Lì, sui campetti polverosi della suburbia, av­verte la solitudine poco poetica del portiere che, in pieno recupero, dalla porta del Fiumi­cino lanciò la sua ultima “vana difesa”. «Gio­chiamo un’amichevole contro la Roma e paro il rigore a Paulo Sergio… Per un attimo ho a­vuto la bella sensazione di non aver mai la­sciato Trigoria. E invece ero lì, in quel campet­to periferico, dove ormai scendevo in campo solo per passione. La mia professione è diven­tata quella di geometra e l’unica medicina per non farmi troppo male con i ricordi del passa­to sono i bambini della scuola calcio ai quali insegno prima di tutto che questo sport è un gioco».
Un gioco stupendo, ma che fa male quando hai toccato il cielo con un dito e, poi, sei finito con la faccia a terra, senza nessuno disposto ad aiutarti a rialzare. È ciò che ha provato Danie­le Rossi. Chi ha un “De” in più nel cognome, oggi è il “capitan Futuro” nella Roma, Daniele De Rossi. Lui invece Rossi Daniele, nella di­stinta dell’arbitro figurava come il numero 10 prima che arrivasse la stella luminosa di Totti Francesco. «Con Totti siamo stati anche com­pagni di scuola, all’Istituto tecnico. Eravamo diventati il “tandem” degli Allievi nazionali: de­cine di gol realizzati in coppia, titoli italiani e tante coppe alzate assieme. A un certo punto gli ho ceduto il n.10 e io sono diventato l’11, ma andava bene lo stesso, perché Francesco si ca­piva già allora che sarebbe diventato quel cam­pione immenso che è». Tante aspettative, i tecnici riponevano anche in Daniele che va in prestito al Cecina e anco­ra spera nel grande rientro in casa giallorossa, ma in una amichevole con il Palermo, a Nor­cia, mise il piede in una buca, e lì sono finiti tut­ti i suoi sogni. «È stata dura accettare di smet­tere e proiettarsi in una realtà diversa da quel­la del calciatore professionista che credevo sa­rebbe stata la mia giusta realizzazione. La de­pressione all’inizio mi divorava, poi ho prova­to a dare un senso a questa seconda vita. Oggi cosa faccio? Il cameriere in una pizzeria a Te­staccio. Gioco a calciotto con Marco Caterini nella squadra del Pizza Bum e in estate alleno i ragazzini nei Milan Junior Camp».
Non era proprio quello che desiderava Danie­le, e neppure Andrea e Marco, ma è andata co­sì. «Il titolo del mio film – conclude Geremei – Zero a Zero, indica proprio questo: la loro “par­tita” non è andata come doveva andare, ma al­la fine non ci sono né vincitori né vinti in que­ste tre storie, che sono simili a tante altre che viviamo tutti i giorni in altri campi spesso di­stanti da quelli di calcio. Però i destini paralle­li di Andrea, Marco e Daniele, per chi ha visto il film restano esemplari per il coraggio nell’a­ver saputo affrontare e superare la sofferenza. E le loro testimonianze potranno essere utili a tanti ragazzi che in questo momento, sba­gliando, del calcio ne fanno una ragione di vi­ta o di morte».