Francesco Damato, Il Tempo 30/1/2014, 30 gennaio 2014
NATO, LEGGE ELETTORALE E TANGENTOPOLI: QUANTE RISSE
Bisogna risalire all’estate del 1949 per trovare nelle cronache parlamentari della Repubblica qualcosa di analogo - per tumulti, insulti e minacce - allo spettacolo inscenato ieri dai grillini nell’aula di Montecitorio. Allora a cercare e a provocare disordini, sia alla Camera sia al Senato, fu l’opposizione comunista, spalleggiata anche da quella socialista, contro la ratifica dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Del quale il Pci solo 27 anni dopo, nel 1976, avrebbe cominciato timidamente, sotto la guida di Enrico Berlinguer, ad avvertire l’utilità anche per una sinistra desiderosa di muoversi in autonomia rispetto agli interessi e alle direttive sovietiche.
Ma fu, appunto, solo un approccio timido, tentato dal segretario del partito in una intervista del 15 giugno a Giampaolo Pansa, per Il Corriere della Sera , e censurato prudentemente dal giornale ufficiale del Pci, l’Unità , perché i militanti non ne fossero informati. Nel 1979 il Pci tornò al vecchio e preconcetto antiatlantismo, quando fu adottato il riarmo missilistico della Nato di fronte ai nuovi dispositivi d’attacco installati contro l’Europa occidentale dall’Unione Sovietica e dai Paesi «satelliti». Ma le proteste quella volta si fermarono nelle piazze.
Ai disordini parlamentari invece l’opposizione comunista era tornata nel 1953, alla Camera e al Senato, per contrastare una riforma della legge elettorale fortemente voluta da Alcide De Gasperi. Tra gennaio e marzo di quell’anno erano volate nelle aule parlamentari tavolette dei banchi, oggetti vari, oltre agli insulti e alle minacce, contro la «truffa» rappresentata addirittura dalla formulazione di un modesto premio di maggioranza, in termini di seggi parlamentari, a vantaggio del partito che di suo avesse già conquistato nelle urne la metà dei voti più uno, cioè la maggioranza assoluta. Per quella «truffa» Meuccio Ruini alla presidenza del Senato aveva rischiato di finire addirittura in ospedale.
Approvata la legge, Ruini commentò la fermezza adoperata nella direzione dei lavori parlamentari dichiarandosi «fiero di avere salvato la democrazia ma fisicamente sfinito». Il premio di maggioranza poi non scattò nelle urne del 7 giugno 1953 perché mancarono alla Dc e ai suoi alleati poche decine di migliaia di voti, probabilmente sottratti dagli scrutatori di sinistra con espedienti sui quali il ministro dell’Interno Mario Scelba era pronto a disporre verifiche scrupolose. Vi si oppose, alla guida del governo, De Gasperi nel timore di riaprire nelle piazze i tumulti parlamentari dei mesi precedenti. Che il Pci era già pronto ad organizzare.
Il clima tornò altre volte a surriscaldarsi in Parlamento anche negli anni del primo centrosinistra «organico», dopo cioè la rottura dei socialisti con il Pci e il loro ritorno al governo con la Dc, negli anni Sessanta, ma senza mai raggiungere i toni e le violenze del 1949 e del 1953. Per ritrovare qualcosa di analogo si dovette aspettare l’approdo di Tangentopoli, e della relativa tempesta giudiziaria, nell’aula di Montecitorio. Dove, per esempio, il leghista Luca Leoni Orsenigo nella seduta del 16 marzo 1993 sventolò un cappio per reclamare la testa degli inquisiti e di quanti stavano per diventarlo, fra le proteste dei democristiani, dei socialisti e del presidente dell’assemblea. Che era Giorgio Napolitano, al quale era già capitato sei mesi prima l’ingrato compito di comunicare all’assemblea la drammatica lettera d’addio scritta dal deputato socialista Sergio Moroni, uccisosi a Brescia per essere stato coinvolto nelle indagini sul finanziamento illegale della politica.
La tensione tornò a salire nell’aula di Montecitorio il 29 aprile del 1993, quando a scrutinio segreto mancarono i voti per tre delle cinque autorizzazioni a procedere chieste contro Bettino Craxi. I disordini che si evitarono a stento in aula scoppiarono però il giorno dopo in piazza, davanti all’albergo romano in cui Craxi abitava, dove una folla reduce da un comizio di Achille Occhetto rovesciò contro di lui di tutto: monetine, ombrelli, scatole, insulti e minacce.
Disordini, ma di altro tipo, più ridanciano, accompagnarono invece nell’aula del Senato, nel 2008, la caduta dell’ultimo governo di Romano Prodi, con brindisi e brandelli di mortadella sui banchi del centrodestra.