Guido Compagna, Il Sole 24 Ore 30/1/2014, 30 gennaio 2014
QUANDO ANDREOTTI PRENDEVA 367MILA VOTI
Nel 1972 Giulio Andreotti ne collezionò 367 mila alla Camera (si poteva essere candidati in tre circoscrizioni). Poi, nel 2008 Silvio Berlusconi arrivò a quota 2 milioni e 700 mila. Ma era un’altra storia: si trattava di elezioni europee e il capo dell’allora Pdl era candidato in tutte le cinque mega circoscrizioni. Naturalmente stiamo parlando di preferenze, gioia e dolori della nostra storia democratica.
Gli elettori italiani le usano sempre meno quando vengono chiamati a votare. Prima, con il Mattarellum, potevano usarle soltanto per la quota proporzionale, con la quale eleggevano il 25% dei parlamentari. Poi, con il Porcellum, le hanno dovute mettere definitivamente da parte. Salvo recuperarle in elezioni europee, regionali e comunali. Se la nuova legge elettorale andrà in porto dovranno continuare a farne a meno. Certamente durante il dibattito parlamentare il tema delle preferenze tornerà di attualità. Ma i pronostici lasciano tutti intendere che, se la riforma si farà, sarà senza il voto di preferenza.
La domanda da porsi è allora: le preferenze nella storia della Repubblica sono state davvero una sorta di male assoluto, o sono state un elemento indispensabile al funzionamento del nostro sistema democratico? Il voto di preferenza è sempre stato una possibilità in più data all’elettore, che, oltre al partito, poteva scegliere quale candidato (o candidati) poteva meglio rappresentarlo. Il che si addiceva abbastanza bene alla geografia della prima repubblica: partiti all’interno dei quali c’erano correnti organizzate e vita politica che viveva dei contrasti e degli accordi che all’interno dei partiti, e quindi delle liste elettorali, potevano determinarsi.
Eppure anche nella prima repubblica le preferenze non hanno funzionato in modo eguale in ogni partito, in ogni modo e in ogni tempo. Nel Pci le preferenze erano adoperate in maniera molto differente da come venivano adoperate nella Dc e in quasi tutti gli altri partiti. Tra i comunisti le indicazioni di voto le dava solo il partito, secondo quanto previsto dal centralismo democratico. In questo modo (con un uso limitato delle preferenze) il gruppo dirigente era in grado di determinare (quasi matematicamente) quali sarebbero stati gli eletti. Peraltro nel Pci la propaganda personale dei candidati era rigorosamente vietata e toccava alle sezioni sul territorio garantire che le direttive del partito fossero rispettate. Lo stesso (almeno fino ai primi anni ’60) avveniva nel Psi.
Nella Dc e negli altri partiti di centro e di destra il ricorso alla preferenza era altissimo, il cannibalismo tra i candidati era pratica naturale, gli accordi e gli incroci tra candidati all’ordine del giorno. Naturalmente questo portava ad un ruolo sempre più importante dei capi-elettori e delle rispettive clientele. Insomma, non c’è dubbio che la pratica del clientelismo, soprattutto nel Mezzogiorno, è stata sempre alimentata da questo sistema elettorale. Al tempo stesso a beneficiare delle lotte interne tra candidati erano soprattutto le tipografie che stampavano a getto continuo manifesti elettorali. Conclusione: con la preferenza le elezioni costavano tanto.
In più va ricordato che fino al 1991 (referendum sulla preferenza unica) per votare i propri candidati bastava indicare il loro numero in lista. Doveva essere un modo per facilitare gli analfabeti. In realtà l’indicazione numerica favoriva i peggiori pasticci e anche qualche broglio. Cosa ci voleva a trasformare un 3 in 13 o un 6 in 16? Certo nei seggi i partiti si presentavano con agguerriti rappresentanti di lista. Ma nei piccoli centri spesso questi si mettevano d’accordo per aggiustare le cose in casa propria.
Nel 1991 comunque le cose sono radicalmente cambiate, grazie all’approvazione del referendum, che ha abolito le preferenze multiple, consentendo al cittadino di indicare il nome di un solo candidato. Venivano così meno incroci e accordi tra concorrenti. Al tempo stesso (l’analfabetismo per fortuna era diminuito anche nelle zone più arretrate del Paese) finiva la possibilità del voto numerico perché l’elettore doveva scrivere per intero il nome del prescelto. E questo riduceva di molto la possibilità di brogli nei seggi. Come dire, grazie a quel referendum e alla conseguente regolazione e limitazione del voto di preferenza si era già messo fine alle peggiori storture di quel sistema.
Conclusione: la preferenza non è né un toccasana né il male assoluto. Soltanto un modo per consentire a chi vota di scegliersi il parlamentare. I collegi uninominali, a giudizio dei più, funzionano meglio perché più si adattano ad un sistema con aspirazioni maggioritarie. Per il resto la parola è alla politica, visto che alla fine le leggi elettorali sono quelle che in quella fase politica si riesce a fare approvare.