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 2014  gennaio 29 Mercoledì calendario

TUTTO MERITO DI UN 38


[Carlo Verdone]

SUL TAVOLINO A FIANCO DEL DIVANO c’è una montagnetta di pacchetti di sigarette di marche diverse.

Ho letto che aveva smesso di fumare.
«Ci sto vicinissimo. Cioè, sto vicinissimo alla decisione di smettere. Ho cominciato a 13 anni, ormai il danno è fatto, però vorrei evitare almeno l’enfisema polmonare».

CARLO VERDONE SCUOTE LA TESTA. «È che il film mi dà un po’ di nervosismo», aggiunge accendendosi una sigaretta. Tra poche ore ci sarà la prima proiezione di Sotto una buona stella. «Una proiezione carbonara», la definisce: «La famiglia De Laurentiis, la famiglia Verdone, qualche collega del film, pochi amici».
Lui interpreta un padre che definisce «pessimo»: ha divorziato presto dalla moglie per rifarsi una vita con un’altra donna più giovane, lasciando soli i due figli, Niccolò e Lia (Lorenzo Richelmy e Tea Falco). Fino al giorno in cui la morte dell’ex e un rovescio finanziario nel quale perde tutto lo costringono a riprenderli a casa con sé. Ma la convivenza con due figli ormai ventenni è complicata. Almeno fino all’arrivo della nuova inquilina (Paola Cortellesi). «Anche lei ha un passato non facile e una professione, tagliatrice di teste, che detesta e che le crea enormi sensi di colpa, ma è una persona buonissima che porta armonia e buon senso». Preso dal racconto, Verdone mi svela anche il finale del film che ha a che fare con Londra e con una stella che brilla nel buio, da cui il titolo. «Un simbolo di speranza», dice. «Perché l’invito a essere solidali è la colonna vertebrale di questa storia. Lo dice anche papa Francesco: “Tendetevi la mano”. Tanto più fra genitori e figli, visto che la famiglia è l’unica cosa su cui possiamo fare affidamento».
La ragione per cui i ragazzi vanno a stare dal padre è che lui non può più permettersi di pagare l’affitto del loro appartamento. È giusto che un genitore mantenga i figli ventenni?
«Infatti lui li rimprovera di non darsi abbastanza da fare. Ma non è colpa loro: in Italia, lavoro per i giovani non ce n’è. E se lo trovi, ti sfruttano».
Era così diverso quando lei era giovane?
«A 26 anni, io non avevo ancora capito quale potesse essere il mio futuro. Mi ero diplomato al Centro sperimentale di cinematografia, ogni tanto lavoravo come assistente alla regia, qualche volta gratis. Mi sembrava di non andare da nessuna parte. La differenza, però, è che negli anni Settanta sentivi che la crisi sarebbe finita in tempi rapidi. Oggi sai che durerà a lungo».
La prima volta che ha avuto la sensazione di aver raggiunto l’indipendenza economica?
«Dopo Non stop in Tv – era il 1978 – cominciai a fare un po’ di serate a teatro. Un giorno andai in banca e scoprii che avevo abbastanza da comprarmi una Fiat 127 base. Mi sentivo un piccolo signore. Anche se, poi, dal benzinaio, non riuscivo mai a permettermi più di un quarto del serbatoio».
Sempre a proposito di crisi, ha mai avuto paura che la sua carriera potesse finire?
«Quando nel 2000 uscì C’era un cinese in coma, incassammo meno delle aspettative. Per una settimana mi sentii come un pugile suonato. Poi, però, mi sono detto: “Pazienza”. Le carriere finiscono se vai in depressione, ma io stavo in pace con me stesso. In quell’occasione ho capito che se il pubblico ha un momento di stanchezza nei tuoi confronti, ti devi fermare per un po’. È quello che ho fatto per due anni. E i miei figli (Giulia, nata nel 1986, e Paolo, nel 1988, ndr) ancora oggi ringraziano quel film: finalmente avevamo tempo per stare insieme».
All’epoca erano adolescenti.
«Avevano 14 e 12 anni. Mia moglie (Gianna Scarpelli, dalla quale è separato, ma non divorziato, dal 1996, ndr) mi disse: “Prenditeli”. Siamo partiti, una vacanza in America di 20 giorni. È stato utile».
In che senso?
«Durante il viaggio, pochi giorni prima di Capodanno, mia figlia si ammalò: mal di gola e febbre a 38. Ho trovato il medico, le ha tolto le placche col cotton fioc, l’ho accudita e il 31 dicembre stava abbastanza bene da uscire. Ho capito di essere un buon padre. Durante il volo di ritorno in aereo dormivano tutti e due. Li ho guardati e mi sono detto: “Te la sei cavata bene”».
E poi?
«Per loro questa casa è sempre stata aperta, qui ci sono le loro camere e sanno che possono venire quando vogliono. Adesso hanno la loro vita, Giulia lavora, mentre Paolo sta facendo un master a Ginevra, ma se uno di loro mi dice: “Vengo a cena”, cancello tutti gli impegni».
Le pesa che Paolo sia lontano da Roma?
«Mi manca, ma abbiamo preso l’abitudine di comunicare via email. Ne è venuto fuori un bell’epistolario. Quello che mi ha colpito, rileggendolo, è che all’inizio sono io che insegno a lui. Ma, a un certo punto, la situazione si inverte. Mi piacerebbe farne un libro».
Nel film, la scena in cui tira un ceffone a suo figlio è quella che segna la svolta nel vostro rapporto. Gli schiaffi
fanno bene?
«Non sono un fan delle sberle, anche se io ne ho prese parecchie, all’epoca si usava, purtroppo. A proposito, mi ricordo un episodio che incrinò il rapporto con mio padre addirittura per un anno. Mi ero appena rotto una gamba in Vespa e stavo sul letto con dolori atroci. Lui, che mi aveva detto mille volte di non andare in moto, mi diede due sberle. Ma forti, pam pam. Anni dopo mi chiese scusa».
A differenza del personaggio del suo film, lei ha mantenuto un rapporto di grande complicità con la sua ex moglie. Come ha fatto?
«All’inizio, un po’ di schermaglie ci sono state. Ma a un certo punto deve entrare in gioco il buon senso. Gianna e io abbiamo cercato di andare il più possibile d’accordo per i figli. E poi lei è una persona talmente affidabile. Ne ho avuto l’ennesima conferma nei giorni scorsi: il mio segretario è morto. Per me era un amico, un angelo custode, ero devastato. Per fortuna mia moglie, in attesa che trovassimo un’altra persona, ha preso il suo posto».
Da come ne parla, più che una separazione sembra un matrimonio.
«Siamo partiti dall’idea che i figli non dovevano soffrire e siamo stati rigorosi in questa scelta di andare d’accordo. Gianna è una specie di preside. Per esempio, mai che mi abbia detto: “Bravo”. Per lei il massimo del complimento è: “Evviva”. Me lo ha scritto in un messaggio quando La grande bellezza ha vinto il Golden Globe».
C’è la possibilità che lei vada a Los Angeles per gli Oscar?
«Non credo. Ma spero tanto che Paolo Sorrentino possa vincere: è una persona speciale e La grande bellezza è un film importante. Mi dispiace solo per la scena della masturbazione che era fondamentale per capire il mio personaggio, ma che è stata tagliata».
Cioè?
«Anna Della Rosa (interpreta la donna che il personaggio di Verdone ama senza speranza, ndr) è seduta sulle scale dell’Aracoeli, sono le quattro del mattino, Roma è deserta. Dice: “Mettimi una mano in mezzo alle gambe e toccami”. Io lo faccio, ma poco dopo mi rendo conto che è solo un’elemosina e me ne vado. Paolo mi ha detto: “L’ho tagliata perché non era venuta come volevo”. “Ma com’è possibile?”, gli ho chiesto, “avevi quattro macchine da presa”. Poi ho capito: aveva così tanto materiale da fare un film lungo una settimana. Qualcosa bisognava eliminarlo».