Enrica Brocardo, VanityFair 29/1/2014, 29 gennaio 2014
L’ALTRA SFIDA – [SOCHI 2014 DOVE SI GIOCA LA PARTITA TRA PUTIN E GLI ATTIVISTI GAY]
DAL 30 GIUGNO, IN RUSSIA, una legge federale vieta la propaganda di quelle che vengono definite «relazioni non tradizionali» in presenza di minorenni. Secondo un sondaggio, l’88 per cento è d’accordo con il bando. E il 47 per cento ritiene giusto che i gay non abbiano gli stessi diritti degli etero.
Il 7 febbraio a Sochi inizieranno i giochi olimpici invernali.
Una grande operazione di immagine voluta dal premier russo Vladimir Putin che potrebbe trasformarsi in un boomerang. Tra proteste delle associazioni gay e boicottaggi. Pochi giorni fa, l’attivista per i diritti gay Pavel Lebedev è stato arrestato per aver sventolato una bandiera arcobaleno al passaggio della fiaccola olimpica. Diversi capi di Stato, tra cui Angela Merkel, James Cameron e François Hollande, da tempo hanno annunciato che non saranno presenti all’inaugurazione, mentre Obama ha deciso di provocare Putin scegliendo due atlete lesbiche per la delegazione ufficiale degli Stati Uniti.
YURY ALLUNGA IL PASSO SU NEVSKIJ PROSPEKT di San Pietroburgo, attraversa il ponte sul fiume Neva, si ferma davanti a un negozio. Di fronte alla vetrina c’è una ragazza, il vento le piega il cartello che tiene tra le mani. Una signora piccola piccola, con addosso un cappotto e un cappello di un rosso irreale si ferma a leggere. Arrivano due poliziotti, la ragazza cerca i documenti in tasca. Intanto la signora delle fiabe comincia a discutere con i due agenti. Guardo Yury. «Sta dicendo che la polizia dovrebbe restare a proteggerla». Mezz’ora prima, in taxi, mi aveva fatto un corso accelerato sulla protesta in Russia. «Ce ne sono di quattro tipi: il corteo, il comizio, il picchetto di gruppo dove si possono portare bandiere, cartelli, ma non sono ammessi discorsi, e il picchetto singolo. Adesso sono tutti proibiti, meno l’ultimo».
Yury Gavrikov, 48 anni, è il fondatore di Equality, un’organizzazione che lotta per i diritti dei gay. La protesta di oggi, invece, è stata organizzata da un gruppo di democratici di San Pietroburgo: non sono omosessuali, ma sono convinti che la norma anti propaganda incrementi l’odio e la violenza.
Di questo parlano i cartelli che una decina di volontari regge davanti a sé. Si sono srotolati lungo la strada principale della città, a un centinaio di metri l’uno dall’altro: quanto basta per non infrangere la legge.
FISCHIETTI CONTRO LA VIOLENZA
OGNI VOLTA CHE QUALCUNO sta per scattare una foto, Sergey si toglie dall’inquadratura. «Non voglio apparire perché mi danneggerebbe come politico», spiega. «Se un giorno avrò il potere per farlo, abolirò questa legge, ma uscire allo scoperto oggi significherebbe finire la mia carriera prima di cominciarla».
È convinto che fra vent’anni in Russia i matrimoni gay saranno legali. «Vietare la propaganda paradossalmente accelererà il processo. Certo, i conservatori proveranno a promulgare leggi ancora più severe, ma molti ormai sono disposti a uscire allo scoperto».
Arriva un ragazzo con una benda sull’occhio. Gli vanno tutti incontro, uno per uno lo abbracciano. Dmitry Chizhevsky ha lasciato l’ospedale ma dovrà rientrare fra poche ore: i medici non sanno ancora se potrà recuperare la vista. Il 3 novembre, due neonazisti hanno fatto irruzione nel centro arcobaleno LaSky a San Pietroburgo.
Dmitry stava chiacchierando con altri attivisti, sul tavolo tè e biscotti. Un proiettile sparato da una pistola ad aria compressa lo ha colpito all’occhio. Prima di scappare lo hanno picchiato con le mazze da baseball.
Sergey mi mostra un fischietto: «Ci siamo organizzati. Se qualcuno si sente minacciato può usare questo». Mi guardo intorno. Cerco qualcuno che indossi una giacca di una ben precisa marca e scarpe di un ben preciso modello: «È la divisa dei neonazisti russi. Usano quelle scarpe perché sono molto silenziose, ti puoi avvicinare senza fare rumore», mi hanno spiegato.
Un paio di ore dopo ci infiliamo infreddoliti in un fast food. Oggi, per fortuna, nessuna aggressione.
PROPAGANDA PER LA TOLLERANZA
KIRILL KALUGIN HA 21 ANNI, è nato l’anno prima che in Russia l’omosessualità venisse depenalizzata, nel 1993. «Mio padre non ha mai accettato di avere un figlio gay, mia madre, forse, potrebbe farlo, ma non le va giù che io sia un attivista».
Il 2 agosto di ogni anno, a San Pietroburgo, si ritrovano centinaia di paracadutisti, «in pratica si impossessano della città e finisce sempre con un mucchio di ubriachi e qualche zuffa. La polizia non interviene, ha paura».
Kirill il 2 agosto scorso ha organizzato un picchetto, lui da solo davanti al Palazzo d’Inverno con una bandiera arcobaleno e la scritta: «Questa è propaganda per la tolleranza». Quel giorno gli agenti sono dovuti intervenire per forza: lo hanno trascinato via prima che venisse linciato.
Un mese prima, si era presentato all’ufficio matrimoni del Comune con il suo amico Pavel Lebedev (lo stesso che è stato arrestato al passaggio della fiaccola olimpica) per chiedere il riconoscimento della loro unione, «gli impiegati erano scioccati, come se avessero visto arrivare gli extraterrestri».
In un’altra manifestazione, portò un cartello che diceva: «La sodomia in ogni casa». Per quella scritta, rischia un’accusa di estremismo.
Lo guardo per cercare di capire dove trovi il coraggio. Vedo solo un ragazzo che il nero dei vestiti fa sembrare ancora più magro, i capelli rasati a zero.
Erano rossi nelle foto scattate ad agosto e finite sui giornali. Da allora Kirill è diventato una celebrità, e un bersaglio facile da trovare. In Rete, i gruppi neonazisti si scambiano indirizzi, numeri di telefono degli attivisti, e postano foto delle torture inflitte a quelli che definiscono «pedofili».
CHI CREDE ALLA TEORIA DEL COMPLOTTO
IL CASO VUOLE CHE SI CHIAMI KIRILL anche un altro attivista picchiato il 29 giugno al gay pride di San Pietroburgo.
Ci diamo appuntamento in un bar. Nel tavolo a fianco, un ragazzo e una ragazza si tormentano delicatamente le mani, occhi negli occhi. Devono avere più o meno l’età di Kirill Fedorov, che di anni ne ha 21, e della sua amica Anna Prutékova, soltanto uno di più. Mentre parliamo, più volte lei lo abbraccia come un figlio. «L’ho abbracciato anche al gay pride. Molto forte», ride.
Quel giorno si erano ritrovati attivisti e sostenitori. Un piccolo gruppo. Dall’altra parte molti più omofobi. Kirill fu preso a pugni e calci finché Anna e un paio di altri ragazzi si gettarono nel mezzo e lo strinsero fra le braccia per difenderlo.
Kirill è gay, Anna bisessuale. «Ma prima non ero costretta a pensarci ogni minuto», dice. «La propaganda l’hanno fatta gli altri. La gente crede a quello che sente in Tv, che siamo una minaccia, che gli Stati Uniti finanziano le organizzazioni omosessuali per indebolire il Paese. La vita in Russia non è facile, è un sollievo avere un nemico con cui sfogarsi».
Poi tira fuori dalla borsa una bomboletta di spray urticante. «Voglio potermi proteggere, e proteggere i miei amici». Kirill la guarda, sorride, poi si rivolge a me: «Non sono d’accordo. Chi lotta per i diritti umani non può mai ricorrere alla violenza».
E SE UN GIORNO TOCCASSE AI FIGLI?
«AL PRIMO POSTO DELLA LISTA NERA ci sono i gay, che “meritano di essere discriminati e picchiati”. Va un po’ meglio per le lesbiche: sono brutte e infelici, e hanno bisogno di un uomo vero che le “sistemi”. Infine, ci sono i bisessuali, anzi le bisessuali: se hai un marito, ma ti capita di fare sesso con una donna, in fondo è una cosa eccitante».
Maria Geints, 27 anni, descrive quello che secondo lei è il punto di vista della maggior parte dei russi. Parla e subito traduce in russo per la sua compagna, Ekaterina Alekseeva, 22 anni.
«I nostri genitori pensano che siamo solo due amiche che dividono le spese e si aspettano che un giorno ci sposeremo e faremo tanti figli».
In realtà, Maria un bambino lo vuole davvero. «Ne abbiamo parlato e abbiamo un piano: Ekaterina ha un fratello gemello che sa di noi due e ci vuole bene. Sarebbe meraviglioso che il padre fosse lui».
Maria ed Ekaterina non sono due attiviste. Al gay pride lo scorso giugno sono andate per curiosità, «e perché ci avevano detto che la manifestazione era autorizzata. Mi ero messa un vestito e i tacchi», dice Maria, «mi sono ritrovata con la polizia che ci picchiava».
Quell’esperienza le ha aperto gli occhi: «Per ora la legge anti propaganda non ha avuto un effetto sulla nostra vita, ma sarà lo stesso quando avrò un figlio? E se una nuova legge consentisse a qualcuno di venire a portarmelo via?».
UNA LEGGE CHE AIUTA I (VERI) PEDOFILI
SVETLANA RATNIKOVA HA 35 ANNI e fa l’avvocato. Le è capitato di assistere sia gli attivisti gay sia i neonazisti: «Chiunque sia nei guai con le autorità» è il suo principio. Un mese prima che l’Italia venisse «premiata» dalle autorità russe nel campo delle adozioni internazionali (perché non consente le nozze gay), Svetlana aveva già previsto quella mossa. «Dal loro punto di vista, la legge non sta funzionando perché i processi, finora, sono stati pochi. Per questo cominceranno a puntare il dito sulle adozioni».
Non è tutto. A settembre, un nuovo disegno di legge contro la propaganda gay all’interno delle famiglie è stato presentato in Parlamento: se passasse, chiunque avesse un orientamento sessuale “non tradizionale” potrebbe vedersi tolto l’affidamento dei propri figli.
Sono le undici di sera quando arriviamo al club lesbo Infinity. Svetlana conosce un’amica delle due proprietarie, Aleksandra Stepanova, 25 anni, e la sua ex, Kseniya Ivanova, 27. La musica è forte ma in qualche modo continuiamo l’intervista. «La versione della legge approvata a San Pietroburgo (nel 2012, ndr) parla di gay, bisex, trans e anche di pedofili», spiega, «così alcuni avvocati la stanno usando per far ricadere casi di tentata violenza sotto la legge anti propaganda. In pratica significa prendersi una multa al posto di una condanna a sette anni».
QUEI POCHI CHE CAMBIERANNO IL MONDO
È LA MIA ULTIMA SERA A SAN PIETROBURGO. Yury mi riaccompagna all’hotel. Mi ha fatto da guida per tutto il tempo e mi ha organizzato gli incontri con i vari attivisti. Nella fretta non c’è mai stato il tempo di parlare. Mentre in ginocchio sul pavimento sistema la sua attrezzatura fotografica, comincia a raccontarsi, lo sguardo altrove. Dice che per anni è stato innamorato del suo più caro amico. Ricorda la paura di essere rifiutato dalla persona che amava di più al mondo, e il giorno in cui per la prima volta disse a voce alta: «Sono gay». «Ero in bicicletta. Lo ripetei tre volte, e ogni volta suonava meno strano».
Poi parla dell’attivismo. Tutto inizia nel 2006, a Mosca, al meeting di preparazione del gay pride. «All’ultimo le autorità negarono l’autorizzazione. Io dissi: “Dobbiamo dimostrare che rispettiamo le regole anche quando sono sbagliate”. Ero l’unico a pensarla in quel modo. La parata si fece comunque, e andai anch’io».
Quel giorno gli ha cambiato la vita. «Ho capito di aver detto una stronzata. Bisogna provocare, farsi vedere. Il paradosso è che oggi la maggior parte delle organizzazioni russe che difendono i diritti dei gay la pensa come me allora. Dicono che bisogna collaborare col governo, ma se il massimo che possiamo fare è dare volantini in giro, a che serve? Però sono certo che ce la faremo. Ricorda che cosa diceva Margaret Mead? “Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi e impegnati possa cambiare il mondo. In verità è l’unica cosa che è sempre accaduta”».