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 2014  gennaio 29 Mercoledì calendario

QUANDO IN ANATOLIA L’UMANITÀ INVENTÒ LE RADICI DELLE LINGUE


Nell’ultimo decennio un gruppo di biologi e scienziati informatici ha tentato di reinventare la linguistica storica su basi più scientifiche. Questi studiosi trattano le parole come i teorici dell’evoluzionismo trattano i geni e concettualizzano la diffusione delle lingue come gli epidemiologi modellano la diffusione dei virus. Il metodo - sostengono - ha permesso di rispondere a grandi interrogativi che si trascinano da tempo, in particolare quello sull’origine della famiglia indoeuropea.
Rifiutando la visione tradizionale secondo la quale i proto-indoeuropei sarebbero comparsi tra le tribù di pastori delle steppe del Ponto intorno al 4 mila a. C., li collocano diversi millenni prima, tra i contadini anatolici. Ma la realtà è che l’evoluzione linguistica non può essere compresa attraverso modelli non-linguistici che riducono la lingua a una semplice raccolta di parole.
Vagliando i modelli utilizzati dai linguisti evoluzionistici ed esaminando la geografia storica della frammentazione e della diffusione del linguaggio, noi vogliano dimostrare che il nuovo approccio ispirato alla biologia è, in ultima analisi, non-scientifico e altera la comprensione del passato. Di certo, i dibattiti sulla lingua indoeuropea hanno svolto un ruolo straordinariamente importante nella storia intellettuale. È difficile, infatti, trovare un tema che, negli ultimi due secoli, sia stato più intellettualmente provocatorio, carico di ideologia e connotato politicamente di questo. Se nel tardo XIX secolo l’espansione della famiglia indoeuropea fu considerata come la prova della superiorità razziale dagli «ariani», negli Anni ‘70 del secolo scorso la scuola femminista legata all’archeologa Marija Gimbutas ha ribaltato la tesi, identificando i popoli che parlavano l’indoeuropeo con i Kurgan, un popolo violento che avrebbe distrutto la pacifica ed egualitaria civiltà della «vecchia Europa», inaugurando un’età di dominio maschile. Nel frattempo c’era chi sosteneva che la famiglia indoeuropea avesse avuto origine in India e che il sanscrito è la lingua originale del genere umano, mutuata da Dio.
Visti questi equivoci, è quindi comprensibile che, ora, gli studiosi vogliano reimpostare la questione secondo criteri compiutamente scientifici. Ed è anche logico che desiderino modellare il loro lavoro sulla biologia evoluzionistica. I potenti metodi di indagine filogenetica hanno innescato una rivoluzione nella comprensione della diversificazione della vita e le analogie tra evoluzione biologica e linguistica sono davvero notevoli. Entrambi i processi comportano la replica di codici che cambiano continuamente, dando origine a varietà che nel tempo differiscono sempre più dai progenitori. E così gli «alberi filogenetici», che illustrano la discendenza da antenati comuni, diventano una caratteristica condivisa.
Ma, nonostante le somiglianze, l’evoluzione biologica e l’evoluzione linguistica sono dissimili per molti altri aspetti. Codificare informazioni per la comunicazione non è la stessa cosa che codificare le informazioni che generano la vita: il linguaggio è più fluido e complesso del codice genetico. Le differenze fondamentali possono essere riassunte così: l’evoluzione biologica non è vincolata, ma governata dalla selezione naturale (può verificarsi qualsiasi mutazione, ma quali mutazioni restino valide dipende in gran parte dalla selezione naturale stessa), là dove la variazione linguistica (in termini di proprietà grammaticali di base) è vincolata a un sistema di parametri, ma non è soggetta alla selezione naturale. Il risultato è che gli schemi di ramificazione della discendenza linguistica non indicano lo stesso tipo di relazioni degli schemi filogenetici dell’evoluzione biologica.
Anche se l’evoluzione organica opera attraverso un insieme più ristretto di «unità di messaggi» rispetto al linguaggio, genera comunque differenze a un livello molto più profondo. D’altra parte, se il numero di possibili idiomi è vasto, tutti appaiono come «variazioni sul tema», guidati dagli stessi parametri. Alcune lingue antepongono i verbi ai soggetti e agli oggetti, mentre altre li collocano alla fine delle frasi, ma tutte hanno verbi, soggetti e oggetti. Alcune lingue, poi, costruiscono parole lunghe come frasi, piene di prefissi, infissi o suffissi, mentre altre usano parole singole, ma tutte formano le parole con morfemi e tutte costruiscono frasi. Il risultato di questo limitato campo di possibilità è che lingue completamente indipendenti tra loro condividono, spesso, importanti tratti grammaticali.

D’altra parte, anche lingue correlate possono sembrare prive di elementi comuni, perché la loro evoluzione si muove a grande velocità. L’hindi e l’italiano, per esempio, appaiono dissimili quasi sotto ogni aspetto. A un’osservazione casuale l’hindi sembra avere più elementi in comune con le lingue non-indoeuropee del subcontinente indiano che con l’italiano. Ecco perché i rapporti linguistici sono spesso tutt’altro che scontati e possono essere individuati solo attraverso studi specifici. Ancora una volta, il contrasto con l’evoluzione biologica è netto.
Una distinzione fondamentale tra queste due forme di evoluzione è il fatto che la biologia consente una condivisione di gran lunga minore. Sappiamo che i geni possono saltare da una specie all’altra, ma è un processo relativamente raro: il cambiamento avviene come conseguenza di mutazioni casuali in seguito alla selezione naturale. Quando si tratta di linguaggi, invece, la condivisione è onnipresente. Le lingue si scambiano parole in continuazione e spesso adottano le proprietà grammaticali di altre. Gli aspetti sociali di conseguenza non possono essere trascurati, perché fanno della linguistica un elemento centrale nello studio del passato.
Queste interazioni sociali, purtroppo, vengono ignorate nell’approccio evoluzionistico. Qui le lingue si modellano come se si diffondessero solo attraverso un processo di «diffusione demica», che comporta l’espansione di gruppi di persone monolingui in nuove terre, ignorando, se non escludendo, le interazioni - sia linguistiche sia demografiche - con gli abitanti preesistenti. Ritorna la falsa equivalenza tra popolazioni biologicamente definite e gruppi linguistici che ha tanto segnato gli studi indoeuropei del XIX secolo.
Ma questo modello diffusionista rifiuta anche la possibilità delle migrazione, sebbene sia noto che i movimenti di massa siano stati molto comuni nei tempi storici. I suoi metodi cartografici, poi, sono altrettanto infondati, dato che presuppongono che le lingue siano confinate in i territori ben delimitati e non sovrapposti. In realtà le comunità linguistiche spesso s’incrociano e il multi-linguismo è quasi onnipresente. In conclusione non c’è da stupirsi che la mappa dell’espansione indoeuropea della scuola bio-evoluzionistica sia sbagliata.
Traduzione di Carla Reschia