Julian Barnes, la Repubblica 29/1/2014, 29 gennaio 2014
IO E LUCIAN FREUD
Penelope Fitzgerald pensava che il mondo si dividesse in «sterminatori» e «sterminati ». Di certo si divide in controllori e controllati. Chi è dipendente dall’amore appartiene senza dubbio a questa seconda categoria: Lucian Freud un tempo era così e giurò che non lo sarebbe stato mai più. È stato sempre un controllore, e a volte uno sterminatore. La descrizione dei suoi comportamenti nel libro di Martin Gayford e Geordie Greig mi ha fatto venire in mente, a tratti, due improbabili romanzieri, Kingsley Amis e Georges Simenon. Quando Elizabeth Jane Howard, seconda moglie di Amis e anche lei romanziera, lo vide, alle undici del mattino del giorno in cui doveva pranzare a Buckingham Palace, in piedi in giardino che spingeva un’enorme botte di whisky, gli disse: «Coniglietto, devi proprio bere?». Lui rispose (ed era una risposta che sarebbe stata adatta a molte altre conversazioni): «Io sono Kingsley Amis e posso bere ogni volta che voglio». Quanto a Simenon, due erano le cose a cui si dedicava ossessivamente: la sua arte e il sesso (anche se la sua velocità nello scrivere contrasta con la lentezza di Freud nel dipingere). Una volta osservò, accattivante: «Forse non sono completamente pazzo, ma sono uno psicopatico». Freud confessò la sua «megalomania» a Gayford, aggiungendo che una piccola parte della sua mente era «convinta, forse, che le cose che faccio siano le migliori mai prodotte da chiunque». Amis, Simenon e Freud avevano tutti e tre una madre autoritaria e impicciona: non è detto che sia rilevante, ma è così.
Freud ha sempre vissuto una vita fra gli estremi: duchi, duchesse, reali e fidanzate altolocate da una parte, delinquenti e allibratori dall’altra. I ceti medi generalmente li disprezzava o li ignorava. Anche nei modi oscillava fra i due estremi: imperturbabile e rilassato negli ambienti reali, strenuo fautore del galateo con i suoi figli, ma anche indelebilmente rude e aggressivo. Faceva quello che gli pareva quando gli pareva, e gli altri dovevano adeguarsi. Guidava in un modo che al confronto Taddeo Rospo passerebbe per un principiante nervoso. Assaliva la gente senza preavviso, e spesso senza ragione. Sbarcato profugo in Inghilterra, da bambino, picchiava i suoi compagni di classe inglesi perché non capiva quello che dicevano; a ottant’anni suonati ancora gli capitava di essere coinvolto in una scazzottata dentro un supermercato. Una volta aggredì l’amante di Francis Bacon perché aveva picchiato il suo amico, sbagliando mossa: Bacon si infuriò perché era un masochista e amava essere picchiato. Freud era uno che scriveva «cartoline al veleno», lettere oscenamente offensive e minacciava le persone di riempirle di botte. Quando Anthony d’Offay chiuse una sua mostra due giorni prima del tempo, si vide recapitare a casa una busta piena di merda. (...) Il libro di Gayford, Man with a Blue Scarf, è la narrativa di un singolo episodio: i suoi sette mesi di posa per il quadro omonimo, L’uomo con la sciarpa blu.
Strutturato come un diario, dove ogni voce equivale a un tipo di pennellata, è uno dei più bei libri sull’arte, e sulla creazione dell’arte, che abbia mai letto. Mentre Freud studia Gayford, Gayford studia Freud: mentre si costruisce sul cavalletto, il ritratto si costruisce anche nel testo. Gayford dà una definizione arguta della posa per il ritratto: «Qualcosa a metà tra la meditazione trascendentale e una visita dal barbiere ». Ma era finito sulla sedia del barbiere più esigente che si possa immaginare. Invitato a mettersi comodo, Gayford si siede accavallando la gamba destra sopra la sinistra, e il processo artistico ha inizio. Dopo un’ora circa, arriva una pausa: sulla tela è già tracciato un profilo a carboncino della testa di Gayford e Freud si lascia cadere su uno dei cumuli di stracci disseminati nel suo studio. Quando torna alla sua sedia, Gayford chiede a Freud se può invertire la posizione delle gambe. Assolutamente no, risponde il pittore, perché altererebbe lievemente l’angolazione della testa. E se lo diceva lui, dovevi fartene una ragione. Gayford, che aveva cominciato le sedute per il suo ritratto a novembre, dovette sopportare la sua pesante giacca di tweed e la sciarpa fino all’estate seguente. Freud non usava mai modelli professionisti, ma pretendeva dai suo modelli dilettanti la diligenza di un professionista. Le sue direttive erano legge, anche quando a posare era un pittore come lui. David Hockney ha calcolato di aver posato per Freud «più di cento ore nell’arco di quattro mesi»: in cambio, Freud concesse a Hockney due pomeriggi.
I pettegolezzi sulla sua vita e i suoi tempi si sprecano, e Freud parla liberamente delle sue ambizioni e delle sue procedure. Anche dei pittori che ammira (Tiziano, Rembrandt, Velázquez, Ingres, Matisse, Gwen John) e quelli che non ammira: Leonardo da Vinci («Qualcuno dovrebbe scrivere un libro su quanto dipingeva male Leonardo da Vinci»), Raffaello e Picasso. Preferisce Chardin a Vermeer e liquida Dante Gabriel Rossetti con una violenza tale che viene da solidarizzare con lui: non è solo «il peggiore dei preraffaelliti » (Burne-Jones tira un sospiro di sollievo), ma «la cosa più vicina all’alitosi che esista in pittura».
Freud è sempre stato un pittore dei «grandi spazi chiusi». Perfino i cavalli li dipingeva a casa, nelle loro stalle; e anche se curò una grande mostra di Constable a Parigi, nel 2003, la vegetazione che dipingeva lui viveva dentro un vaso o era visibile dalla finestra di uno studio. La materia delle sue opere era «interamente autobiografica ». Freud non inventava, e nemmeno faceva allegorie; non era mai generalizzante o generico: dipingeva il qui e adesso. Si vedeva come un biologo, così come vedeva il nonno Sigmund come un eminente zoologo, più che uno psicoanalista. Non amava «l’arte che sembra troppo arte», i dipinti garbati, che «rimavano», che cercavano di blandire il soggetto del quadro o lo spettatore o che ostentavano «falsi sentimenti». Non voleva mai «bei colori» nei suoi quadri e coltivava un «antisentimentalismo aggressivo». Quando ritraeva più di una persona, ognuna era separata, isolata, sia che una leggesse Flaubert e l’altra prendesse il latte al seno, sia che fossero tutte e due nude e a letto insieme. C’è solo contiguità, mai interazione.
Freud amava enfatizzare la sua incorreggibi-lità, il suo istinto a fare il contrario di quello che gli dicevano di fare: e più volte nelle sue interviste ha attribuito il suo drastico cambiamento di stile agli elogi che riceveva per il disegno che erano alla base della sua pittura. Per reazione, decise di smettere di disegnare e di dipingere con pennellate più larghe, approssimative. È una spiegazione che sembra poco credibile, considerando la sua ammirazione per grandi disegnatori quali Ingres e Rembrandt. Senza considerare che un artista serio come Freud, per quanto fosse un bastian
contrario, non avrebbe mai consentito che una critica (nemmeno se favorevole) condizionasse il suo stile. Ma è una spiegazione che distoglie l’attenzione dalla ragione vera, anche questa riconosciuta dallo stesso Freud: l’influenza di Francis Bacon. Freud viveva la vita in modo istintivo, ma dipingeva in modo assolutamente controllato; Bacon lo superava, perché dipingeva apparentemente in modo istintivo e veloce, senza alcun disegno preliminare: a volte era capace di completare un quadro in una mattinata. (...) Adottare uno stile più approssimativo non velocizzò in alcun modo il suo lavoro (anche se non si è mai avvicinato neanche lontanamente al record di Ingres: 12 anni per dipingere madame Moitessier). Però cambiò il suo modo di ritrarre la carne. Da quel momento, come osserva Gayford, anche quando dipingeva individui giovani e smunti, introduceva nel ritratto la vulnerabilità della carne, «il suo potenziale di afflosciamento e avvizzimento». A parere di qualcuno in realtà lo aveva sempre fatto. Caroline Blackwood, in un articolo del 1993 sulla New York Review of Books dedicato ai ritratti di Freud, li descriveva come «profezie» invece che come «istantanee del modello catturato fisicamente in un preciso momento storico». Aggiungeva che i ritratti che le aveva fatto lui l’avevano lasciata «sgomenta», mentre «gli altri non riuscivano a capire perché avesse sentito il bisogno di dipingere una ragazza, che a quel tempo sembrava ancora una bambina, con fattezze così crudemente anziane ». Caroline Blackwood aveva molti motivi di risentimento contro il suo ex marito (non ultimo il fatto che fosse andato a letto con la figlia adolescente di lei), ma questa accusa appare ingiustificata. Guardando oggi i ritratti di cui parla, quello che salta agli occhi è l’angoscia e la fragilità, più che un prematuro invecchiamento. Gayford sostiene che il secondo stile di Freud è strettamente legato alla mortalità. Negli autoritratti, scrive, Freud «cattura quasi con diletto i segni dell’invecchiamento e del tempo»; e il suo «atteggiamento verso gli altri modelli in questo senso è identico al suo atteggiamento verso se stesso». È possibile: mi chiedo però se non sia più una questione di stile e pennellata che un messaggio molto sottile sulla mortalità. È il metodo che usa Freud nei suoi sforzi per intensificare la natura e l’essenza del modello, sia che dipinga giovani nudi sia che dipinga l’ottuagenaria regina di Inghilterra, vestita da capo a piedi. (...) Freud considerava Klimt e Schiele trasgressori da salotto, pieni di falsi sentimenti. Dubito che qualcuno potrebbe accusare lui di falsi sentimenti, o contestare la sincerità della sua costante asserzione del dovere dell’artista di raccontare la verità. Ma non è solo questo. Come ha scritto Kingsley Amis: «I poeti dovrebbero gonfiare il cuore con una pompa per bicicletta / o schiacciarlo a terra?». La risposta è nessuna delle due cose, si presume. Freud è uno che il cuore umano lo schiaccia a terra, secondo l’accusa, soprattutto nei nudi femminili, che sono la parte più controversa della sua produzione. Sono nudi fieramente, veridicamente vulvici, sbattuti letteralmente in faccia. Le sue donne sono stese a gambe divaricate, per essere ispezionate: Celia Paul, per propria stessa ammissione «una giovane donna molto, molto impacciata», ha detto che posare per Freud era stata un’esperienza «molto clinica, come stare stesa sul lettino di un chirurgo ». Gli uomini di Freud, in generale, sono vestiti e in primo piano è il viso; le donne di Freud, in generale, sono svestite (fatte svestire) e in primo piano sono le pudende. Gli animali, i cui i genitali rimangono nascosti, sono quelli che ne escono meglio: ma del resto Freud diceva di sentire «un legame con i cavalli, con tutti gli animali, quasi più che con gli esseri umani». (...)
Dei rapporti tra Freud e le donne abbiamo, da tempo, una conoscenza aneddotica. Sappiamo che ne ha avute tante, che si è sposato due volte, che ha procreato innumerevoli figli, letteralmente (ne ha riconosciuti 14, ma il numero effettivo potrebbe essere doppio; considerava qualsiasi forma di controllo delle nascite «orribilmente squallida»). Generalmente le sue donne erano altolocate; e generalmente erano adolescenti quando lo conoscevano. Lui era sempre una star: ammaliante, misterioso, famoso, intenso, vitale. Una delle sue fidanzate ha detto a Geordie Greig che «era come la vita stessa». Un’altra ha detto: «Quando non c’era era come se la luce si affievolisse. E allo stesso modo, tutti quelli che stavano insieme a lui si sentivano più illuminati e in qualche modo più vivi e interessanti». (...) Avevo sempre immaginato che i ritratti dell’anziana madre di Freud nel suo abito a motivo cachemire fossero opere delicate e affettuose, simili nello spirito ai dipinti in cui Hockney raffigurava i suoi genitori anziani. La conoscenza della biografia di Freud corregge questa interpretazione. Fin da piccolo Freud aveva trovato repellente l’interesse di sua madre per lui (faceva cose terribili come portargli da mangiare quando era povero) e per tutta la vita la tenne a distanza. Quando suo padre morì, lei si fece un’overdose: le praticarono la lavanda gastrica, ma aveva già subito gravi danni ed era ridotta a un guscio vuoto. Solo a quel punto — quando, per così dire, la vita l’aveva ridotta a più miti consigli — lui cominciò a ritrarla. Ed era diventata, nelle sue stesse parole, una «brava modella», perché aveva smesso di interessarsi a lui. La cugina di Freud, Carola Zentner, trovava «terribilmente morboso » che «dipingesse qualcuno che non era più la persona che era […] perché fisicamente era viva, ma mentalmente non si può dire che lo fosse ancora ». Ha importanza? Gli artisti sono spietati, prendono la materia per le loro opere dappertutto e così via. A mio parere, in questo contesto ha importanza, perché quei quadri si presentano come ritratti amorevoli della cara vecchia mamma e sono un perfetto esempio di ciò che Freud aborriva: i falsi sentimenti.
Forse, a suo tempo, tutto questo cesserà di avere importanza. L’arte, presto o tardi, tende a fluttuare libera dalla biografia. Quello che una generazione trova crudo, squallido, non artistico, freddo, la generazione successiva lo giudica una visione della vita autentica, perfino bella, il modo giusto per rappresentarla (o piuttosto intensificarla). Due o tre generazioni fa, i nudi di Stanley Spencer scioccavano tanti. Questo piccolo uomo si ritraeva senza abiti accanto a donne (anzi, mogli) voluminose, i cui seni ubbidivano alla legge di gravità. Ora quelle immagini appaiono opere delicate, affettuose, una raffigurazione autentica della giocosità dell’amore e della lussuria. Verrà il giorno in cui Freud sarà considerato il più grande ritrattista del XX secolo? I suoi nudi appariranno alle future generazioni come ci appaiono oggi i nudi di Spencer? Oppure le rimostranze di Kenneth Clark per il cambiamento di stile di Freud troveranno giustizia? Per quanto mi riguarda, considero il suo minuscolo ritratto di Francis Bacon più grande dei suoi monumentali studi di Leigh Bowery. Vorrei anche che avesse dipinto più lavandini, più piante in vaso, più foglie, più alberi. Più terreni incolti, più strade. Gli artisti sono quello che sono, quello che possono e devono essere. Ma personalmente mi sarebbe piaciuto che uscisse di casa più spesso.
traduzione di Fabio Galimberti
(articolo è apparso sulla London Review of Books)