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 2014  gennaio 29 Mercoledì calendario

“COSÌ IL CAPO DELLA MOBILE E LO 007 MI CHIESERO AIUTO PER CACCIARE FALCONE”


ROMA — «Conosco Riina, era certo di essere ascoltato, voleva far sapere che lui è il capo di Cosa nostra e che lo stragismo non è finito: è alla ricerca di chi continui la sua linea suicida». Franco Di Carlo è uno dei pochi collaboratori di giustizia dell’esercito corleonese, per Riina è stato l’ambasciatore nel mondo delle professioni e della politica, è stato corteggiato da servizi e apparati, ha mediato, portando in dote al gruppo egemone di Cosa nostra il capitale umano delle relazioni a tutti i livelli.
Riina ha parlato con un non affiliato a Cosa nostra, ha violato così una regola dell’organizzazione?
«Non è certo la prima volta che parla, ma non mi aspettavo che facesse tanta chiarezza con un estraneo a Cosa nostra».
Riina imputa a Provenzano di averlo fatto con i carabinieri...
«Lo ha accusato di avere dei suggeritori e ha rivelato che la moglie ha soldi a palate. Questo non me lo aspettavo, ma è nel personaggio: sparla sempre tutti e ora lo fa sul conto di chi ha condiviso una vita con lui. Lo ha fatto anche con Messina Denaro, accusandolo di interessarsi solo ai soldi dell’eolico. È lui che si è fatto “sbirro”: ha accusato me di rapporti con i servizi, ha detto allo Stato di cercarsi nelle tasche per le stragi. Ma ha anche detto che se c’è qualcuno disposto a proseguire la sua linea, lui lo appoggerà, sente di essere il dominatore di Cosa nostra».
E sconfessa la cosiddetta linea moderata...
«Fin quando suo cognato Bagarella è rimasto libero, le stragi sono continuate, una volta arrestato, Provenzano le ha fatte cessare, quindi Riina ha sperato in Messina Denaro ma anche lui lo ha deluso. E ora fa sapere che non riconosce nessun altro. Non ha un cervello sopraffino ma è pericoloso: può esserci in giro qualche pazzo disposto a dargli credito».
Qualche pazzo? Cosa nostra non lo segue più?
«Il popolo di Cosa nostra è stanco, decine di uomini d’onore sono
stati sacrificati per la sua megalomania».
Per Riina le stragi sono opera sua, ma lascia intravedere rapporti ad alto livello. Lei ne ha parlato in parte, perché?
«Non sempre ho visto la volontà di volere approfondire. Cosa nostra non prende ordini da nessuno, ma le stragi hanno messo d’accordo più soggetti. Falcone e Borsellino erano un pericolo anche per chi nello Stato temeva la propria fine. L’idea di costituire Dia e Dna, di abbattere il segreto bancario, rappresentavano una minaccia per chi, politici compresi, aveva condotto una lotta di facciata, accordandosi sempre con noi».
Lei ha avuto parte in questi disegni?
«Non ho preso parte alle stragi e non le avrei condivise, ma ero in carcere e ho ricevuto visite da esponenti di servizi che mi hanno proposto un accordo per fermare Falcone».
Quando?
«Accadde prima dell’attentato all’Addaura dell’89, venne a trovarmi un emissario di un ufficiale dei servizi che era stato il mio tramite con il generale Santovito per tanti anni. Con lui c’era il capo della Mobile Arnaldo La Barbera, quest’ultimo non si presentò, ma assistette. Non lo conoscevo, lo riconobbi in fotografia in seguito. Vennero a chiedermi di trovare un modo per costringere Falcone ad andar via da Palermo, a cambiare mestiere. Mi spiego così l’attentato dell’Addaura».
Creò questo collegamento?
«Cercai un contatto, credo che abbiano trovato un’intesa».
Di questo non aveva parlato prima?
«Sono tante le cose che non ho detto perché nessuno me le ha chieste. Credo non fosse il caso visto come vanno le cose».
È stato citato al processo sulla trattativa, andrà?
«Risponderò come sempre, ma è riduttivo chiamarla trattativa: non c’è stato un accordo soltanto sul 41 bis. Cosa nostra e politica hanno avuto un dialogo continuo, erano soci».