Aldo Grasso, Corriere della Sera 29/1/2014, 29 gennaio 2014
QUANDO IL PADRONE SI TRAVESTE DA OPERAIO
David Hassan, così come appare da «Boss in incognito», è una bella persona. Sa riconoscere i meriti dei suoi dipendenti e li gratifica con premi in soldi o con avanzamenti di carriera. Merito del format? Non credo. Siamo solo alla prima puntata, ma il programma ha mostrato non poche potenzialità (Rai2, lunedì, ore 21.18). Una volta, i rampolli delle dinastie industriali facevano gavetta: prima di prendere il comando di una fabbrica vi lavorano dentro, partendo dai gradini più bassi secondo il noto principio che chi non sa fare non sa comandare. Adesso c’è bisogno della tv per scoprire come migliorare le condizioni di lavoro dei dipendenti e ottimizzare i profitti.
La «bibbia» di «Undercover Boss» (creato da Studio Lambert e portato in Italia da Endemol) vuole che il padrone si travesta da operaio, in modo da essere irriconoscibile. Con la scusa di un documentario sul mondo del lavoro, il finto neo-assunto entra negli interstizi della sua fabbrica.
David Hassan è stato costretto a fuggire dalla Libia nel 1967 (il dramma degli ebrei tripolini è una pagina che meriterebbe di essere conosciuta da tutti); dopo molti sforzi e sacrifici, sudando le classiche sette camicie, governa ora un network di abbigliamento molto conosciuto: nel programma si finge commesso, autista, magazziniere... Ha modo di apprezzare i suoi dipendenti e di raddrizzare alcune storture.
Il difetto di «Boss in incognito» (a cura di Cristiana Farina, con Alessia Ciolfi, Yuri Grandone e Giona Peduzzi) è che, alla fine, appare troppo «scritto»: è evidente che la presenza delle telecamere fa sì che tutti recitino secondo i canoni del docu-reality, ma il racconto viene oltremodo idealizzato e se non ci fossero le lacrime a sancire gli incontri finali sembrerebbe pura fiction. Dovrebbe essere più «sporco». A raccordare gli snodi narrativi c’è Costantino della Gherardesca.