Sergio Rizzo, Corriere della Sera 29/1/2014, 29 gennaio 2014
L’IMPIEGATO CON IL VITALIZIO DA 4.500 EURO AL MESE
Marco Verzaschi ha 53 anni ed è un impiegato modello. Tutti i giorni si presenta puntualmente al lavoro, timbra con diligenza il cartellino e quando è l’ora se ne torna a casa. Con una differenza rispetto ai suoi colleghi di fascia C della Regione Lazio: non fa un’ora di straordinario. Non ne ha bisogno. Perché oltre ai circa 1.400 euro netti della busta paga impiegatizia la stessa Regione che gli dà lo stipendio versa ogni mese sul suo conto corrente altri 4.587 euro e 14 centesimi. Cioè l’importo del vitalizio da ex consigliere regionale cui Verzaschi ha diritto dal settembre 2009, pochi giorni dopo aver compiuto cinquant’anni d’età.
C’è anche lui nella lunga lista dei cinquantenni che ancora oggi possono godere di un privilegio così anacronistico in base a norme sopravvissute per pochi, considerato che l’abolizione dei vitalizi, decisa da tutte le Regioni, scatterà nel Lazio a partire dagli eletti nel 2013. Vecchie norme che fra meno di due anni, al compimento del cinquantacinquesimo anno d’età, potrebbero far schizzare l’importo dell’assegno netto cui Verzaschi e coloro nelle sue stesse condizioni hanno diritto oltre i 5 mila euro netti. Tutto questo mentre le pensioni superiori a 1.400 euro al mese dei comuni mortali che hanno lavorato per quarant’anni restano inchiodate per il blocco delle rivalutazioni.
Premettiamo che è tutto assolutamente regolare: non c’è nulla che non sia previsto da leggi e norme. Ma questa è la testimonianza più cristallina dell’assurdità che è stata capace di produrre nel nostro Paese la giungla dei privilegi: un dipendente regionale cinquantenne che per aver avuto un incarico elettivo durato 11 anni incassa dalla stessa Regione anche un vitalizio pari al triplo della busta paga.
E nel Lazio non è certo un politico qualunque, il sociologo Marco Verzaschi. Non per niente l’hanno chiamato «Mister trentamila preferenze». Nel 1986 è già consigliere comunale di Roma per la Democrazia cristiana: da lì al consiglio di amministrazione dell’Amnu, la municipalizzata dei rifiuti che avrebbe poi preso il nome di Ama, il passo è breve. Otto anni dopo, nel 1994, si affaccia al governo: capo della segreteria del ministro della Difesa Cesare Previti, per cui aveva fatto la campagna elettorale. Esperienza brevissima culminata con l’elezione, l’anno seguente, nelle liste forziste del Consiglio regionale del Lazio. Tappa di una scalata formidabile. Che lo porterà nel 1997 all’incarico di coordinatore di Forza Italia a Roma, e finalmente al posto di assessore all’Ambiente per passare poi a quello ancora più succulento di assessore alla Sanità nella giunta regionale di Francesco Storace. Prima del pentimento. Corre l’anno 2004 e i sondaggi cominciano già a dare per spacciato il centrodestra: lui non può che prenderne virilmente atto passando armi e bagagli all’Udeur di Clemente Mastella. Nel maggio 2006 apre il suo cuore a Fabrizio Roncone del Corriere : «Quando mi accorsi che il partito stava morendo, senza più quadri dirigenti, capii che il mio posto non era più lì. Berlusconi cercò di convincermi a restare, due ore a parlare fitto, a fare ragionamenti. Purtroppo per lui, e fortunatamente per me, nel frattempo il feeling politico con Mastella era cresciuto ed era forte...».
In quel momento è il nuovo sottosegretario alla Difesa del governo di centrosinistra, che parla. È rientrato nello stesso ministero, stavolta dalla porta principale ma con meno capelli di quando era solo il segretario di Previti, grazie ai famosi trentamila voti portati in dote all’Unione di Romano Prodi che aveva battuto Berlusconi con una differenza di soli ventiquattromila.
Ma poche settimane prima della caduta di Prodi finisce agli arresti domiciliari con l’accusa di aver intascato tangenti quando era assessore alla Sanità e deve lasciare anzitempo l’incarico governativo. Lascia pure Mastella, il cui partito si è nel frattempo dissolto, trovando confortevole riparo all’Udc di Pier Ferdinando Casini. Il 28 ottobre 2013 si becca una condanna in primo grado per quella storia sanitaria a quattro anni di carcere, di cui tre evaporati per l’indulto concesso dallo stesso governo di cui aveva fatto parte, e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Sentenza contro cui ha fatto appello. Auguri.