Andrea Nicastro, Corriere della Sera 29/1/2014, 29 gennaio 2014
FLESSIBILITÀ IN CHIAVE SPAGNOLA STIPENDI BASSI, PIÙ OCCUPAZIONE
L’alternativa che l’anno scorso la Nissan ha dato ai sindacati spagnoli era in stile Electrolux: mille nuove assunzioni con il 40% di stipendio in meno oppure mille licenziamenti. Per l’azienda si trattava di decidere dove costruire un nuovo modello d’auto a prezzi competitivi. Aveva l’intera Europa low cost in cui scegliere: dalla Polonia all’Ungheria, dalla Serbia alla Lituania. I sindacati avevano meno opzioni. Non solo per la Grande Crisi che in Spagna significa il 26% di disoccupazione, ma soprattutto per la riforma del lavoro approvata il 10 febbraio 2012 dal governo del conservatore Mariano Rajoy. Legge alla mano la Nissan non avrebbe avuto ostacoli ai licenziamenti. Altro che articolo 18. Nel regno iberico basta prevedere un calo di fatturato per inviare le lettere. Così le principali sigle sindacali, Comisiones obreras e la Union general de trabajadores, hanno combattuto, scioperato, limato le perdite per i nuovi assunti, ma alla fine hanno firmato. I vecchi operai sono restati a patto che i mille nuovi arrivino all’80% dello stipendio medio fra 7 anni. Nell’accordo anche maggiore flessibilità interna in termini di orari e weekend. Un’ulteriore sforbiciata al costo del lavoro.
Il caso ha fatto scuola. È stato evocato nei felpati saloni del vertice di Davos. Piace al premier inglese David Cameron e all’ad Fiat-Chrysler Sergio Marchionne. In Spagna ha avuto un’enormità di imitatori. Al momento di scegliere tra disoccupazione e un salario, per quanto basso, la legge della sopravvivenza si impone. Meno stipendio in cambio di 300 posti di lavoro e più flessibilità negli stabilimenti spagnoli Michelin. Niente straordinari e più flessibilità alla Opel. Più ore in cambio di nuovi modelli anche per Ford, Volkswagen, Citroën. Più flessibilità e addirittura più soldi all’Iveco. Il risultato di tanti accordi a senso unico è una crescita spettacolare del settore automobilistico: da 2,2 milioni di veicoli prodotti nel 2013 a 3 milioni previsti nel 2015. Senza neppure un brand nazionale, la Spagna è la seconda fabbrica d’auto europea dopo la Germania. Per Madrid significa il 10% del Pil e il 9% dell’occupazione.
Gli strumenti messi in campo dalla riforma del lavoro sono stati però utilizzati in tutti i settori. Permettono di derogare dal contratto nazionale sia a livello regionale sia aziendale. Così sono scesi i salari nel turismo, nel commercio, nell’informazione, nel pubblico impiego (con stipendi congelati da anni) e nei servizi (famoso lo sciopero ad oltranza degli spazzini di Madrid che si è chiuso con il no ai licenziamenti, ma il blocco quadriennale dei salari). Il risultato è una caduta del costo del lavoro generalizzata, attorno all’8 per cento dal 2010. Nello stesso periodo in Italia è aumentato.
Il governo Rajoy si appunta la medaglia al petto. Se è tornata una timida crescita è merito della riforma. Se stanno tornando i capitali stranieri è perché gli investitori vedono un ambiente adatto al business. L’opposizione fa notare che la disoccupazione non è affatto scesa in termini reali, ma solo grazie all’esodo degli immigrati. E ricorda che non basta combattere la delocalizzazione con il «reshoring», l’Europa non dovrebbe fare concorrenza alla Cina, serve qualità di prodotti e di lavoro. Vero. Però in attesa di nanotecnologie e bio farmaci, si continuano a firmare contratti al ribasso.