Massimo Solani, l’Unità 28/1/2014, 28 gennaio 2014
«A MIA INSAPUTA», COSÌ CAMBIÒ IL LESSICO POLITICO
Un ministro non può sospettare di abitare in una casa pagata in parte da altri. Se dovessi acclarare che la mia abitazione nella quale vivo a Roma fosse stata pagata da altri senza saperne io il motivo, il tornaconto e l’interesse i miei legali eserciteranno le azioni necessario per l’annullamento del contratto di compravendita. Non potrei come ministro della Repubblica, abitare in una abitazione in parte pagata da altri». Nel maggio del 2010, esploso il caso della casa di via del Fagutale, Claudio Scajola annunciò cosi l’intenzione di lasciare l’incarico di ministro dello Sviluppo Economico del governo Berlusconi. Le terze dimissioni della vita: la prima volta da sindaco democristiano di Imperia, nel dicembre 1983, quando fu arrestato dai carabinieri con l’accusa di concussione aggravata (vicenda da cui fu poi prosciolto); poi venne il caso Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse a Bologna il 19 marzo 2002, e quegli insulti vergognosi per cui fu costretto (non senza polemiche e resistenze) a lasciare il ministero dell’Interno. «Biagi era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza», si lasciò sfuggire Scajola parlando con i giornalisti che chiedevano conto al titolare del Viminale del perché il consulente del ministero del Lavoro fosse rimasto senza scorta.
Parole che allora inchiodarono Scajola, addirittura più del disastro del G8 che gestì in maniera fallimentare da ministro dell’Interno, come oggi il suo nome resta aggrappato a quel «a mia insaputa» che pure l’ex coordinatore di Forza Italia giura di non aver mai pronunciato. «Mi sono dimesso da ministro perché mi sono reso conto che qualsiasi cosa dicessi per difendermi non risultava credibile anche se era la verità – commenta oggi Scajola – Ho passato tre anni e 9 mesi di sofferenza che nessuno mi restituirà più».
Nel frattempo, però, i dati di fatto sono due. Il primo: la casa di via del Fagutale vista Colosseo che Scajola comprò per 700mila euro (il restante 1,1 milione di euro, ristrutturazione compresa, lo mise Diego Anemone oggi salvato dalla prescrizione) è ancora di proprietà dell’ex ministro che, dice, non è ancora riuscito a venderla. «In quella casa non ci abito più – ha spiegato in tribunale – l’ho messa in vendita ma per adesso quei pochi che si sono fatti vivi, alla luce di quanto accaduto, sono scappati». Il secondo dato di fatto, invece, ha risvolti diciamo più semantici visto che quel «a mia insaputa» attribuitegli dalla stampa per necessità di sintesi dal maggio del 2010 ad oggi è diventato una sorta di ombrello dietro al quale in molti si sono riparati. «Non sapevo che la casa di Montecarlo fosse stata ristrutturata e affittata a mio cognato», si difese nell’agosto 2010 l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini quando l’affaire monegasco della casa passata dal patrimonio di Alleanza Nazionale alla disponibilità del fratello della compagna Elisabetta Tulliani lo travolse (guarda caso) all’indomani della sua separazione da Silvio Berlusconi. «Non sapevo nulla degli investimenti della Lega in Tanzania», si affrettò a smarcarsi l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni di fronte allo Tsunami che travolse il Carroccio nel gennaio 2011 dopo la scoperta degli affari spericolati del tesoriere leghista Francesco Belsito. Ma sulla buccia di banana del «a mia insaputa» scivolò un anno più tardi anche Carlo Malinconico costretto alle dimissioni da sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria quando sui giornali finì la storia delle sue vacanze a Porto Ercole, nel resort di lusso Il Pellicano, a spese dell’imprenditore della «cricca» degli appalti Francesco Maria De Vito Piscicelli. Non ne sapeva nulla del resto (le parole precise furono «non mi ero accorto di niente») neanche Vittorio Sgarbi quando nel febbraio 2012 il ministero dell’Interno sciolse per infiltrazioni mafiose il Comune siciliano di Salemi di cui era sindaco. Del resto era stato proprio il critico d’arte a nominare vicesindaco, non appena diffusa la notizia della richiesta di scioglimento dell’amministrazione, l’ex deputato De Pino Giammarinaro mesi prima finito al centro di una inchiesta antimafia che aveva portato al sequestro di beni per 35 milioni di euro intestati al politico.
Non è sfuggito alla tentazione del «a mia insaputa» neanche il sindaco di Bari Michele Emiliano, che si difese così nel marzo 2012 quando fu tirato in ballo nell’inchiesta che aveva portato all’arresto per corruzione dei fratelli Degennaro, imprenditori sospettati dai magistrati di aver creato «un sistema di potere» interno al Comune di Bari per l’aggiudicazione di appalti pubblici in cambio di costosi regali. «Sono stato un fesso ad accettare quelle quattro spigole e le 50 cozze pelose. Non sapevo che i Degennaro fossero corrotti», si difese il sindaco. Del resto anche l’ex segretario della Lega Umberto Bossi cadde dalle nuvole quando dall’inchiesta Belsito emerse che parte dei fondi del partito erano stati usati per ristrutturare la casa di famiglia. «Denuncerò chi ha utilizzato i soldi della Lega per sistemare casa mia. Io non so nulla di queste cose», disse.