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 2014  gennaio 25 Sabato calendario

«DEVO TUTTO ALLA PROF CHE MI AIUTO’ A FINIRE L’ISTITUTO PER GEOMETRI»

Quello a sinistra sono io, dice. La valigia nera legata con lo spago appoggiata sulla spalla sinistra, il golfino bianco con i bottoni, tutta quella gente che si muove, quelle facce di un mondo diverso, con gli sbuffi del treno che è come se si sentissero, con i vapori, i fischi, i sedili sformati color marroncino, i viaggi che non finivano mai, tutti ammucchiati insieme, sfilando sui filari di alberi, nelle stazioni vuote, camminando sugli altri passeggeri sdraiati per terra a dormire. Dietro, pure lui con la valigia sulla spalla, c’è suo padre, Fedele Bellusci.
Aveva 46 anni, papà. Lui, 17. Quella foto la guarda come si guarda una cosa che non c’è più, ma che hai amato tanto, nel bene e nel male. Forse è così davvero. È stato suo fratello, Battista, a chiamarlo: l’hai vista? Ci sei tu, gli ha detto. Adesso che la tiene in mano se la ricorda bene, e si ricorda tutto il tempo che ci è venuto incontro, tutti i giorni che sono passati e tutto il mondo che se n’è andato per arrivare qui dove è seduto adesso, sulla poltrona della casa di tre piani in via Di Nanni, con i due figli e Loredana, la sua signora, vicino a lui. Tutta questa vita servirà a qualcosa.
Oggi, Alfonso Bellusci ha 55 anni, i capelli brizzolati, lo sguardo mite. Quella foto è del 1976, fine estate, stazione di Porta Nuova a Torino. Erano finite le vacanze a Grisolia, Cosenza, Mar Tirreno, nel paese con i vicoli battuti dalla brezza, i cortili affacciati sul declivio. Venivano da lì. Torino allora era più grigia, coperta da una patina che scoloriva anche le case. Suo padre era salito nel 1972. Elena, la sorella più grande di Alfonso, aveva sposato Gaetano, manutentore alla linea Fiat, e l’aveva convinto ad andare su a cercare un lavoro. Ha fatto un anno da operaio edile, prima di entrare anche lui alla Fiat.«Così siamo partiti tutti. Sette figli, 2 sorelle e 5 maschi, e i genitori. Le femmine si sono sposate. Siamo rimasti noi 5 più papà e mamma».
Alfonso doveva cominciare le medie superiori e si iscrisse all’Istituto Guarino, per diventare geometra. Ma fu dura. «La scuola giù era scarsa. Il primo anno ho dovuto faticare un mucchio per recuperare il divario, soprattutto in italiano e matematica. Giù avevo 8, qua non sapevo neanche che cosa insegnavano». Per fortuna trovò una professoressa che l’aiutò. Rallentò le lezioni e lo aspettò, standogli dietro, senza fargli pesare il ritardo. Anche lei è come se fosse dentro a quella foto, nelle immagini di quel mondo, del tempo che ci viene incontro. Era la professoressa Cignolo.
Da lì, dalla stazione, con la valigia sulle spalle, prendevano il tram per andare a casa, in via Cibrario. Anche trovare casa era stata dura. C’erano i cartelli: «Non si affitta ai meridionali». Poi loro erano in tanti, erano in 7. Alla fine si arrangiarono in un piccolo appartamento: due camere, tinello e bagno. Lui ha continuato gli studi senza perdere un anno. Preso il diploma, ha cercato un lavoro e si è iscritto all’Università. Il fratello più grande, Antonio, faceva l’apprendista falegname e la scuola serale da elettromeccanico. Ha lavorato all’Enel. Angelo, economia e commercio. Battista e Ferdinando, anche loro ingegneri. Alfonso s’è laureato nell’86, sempre lavorando. Prima ha trovato un posto in soprintendenza come geometra, per 4 anni. Poi ha vinto il concorso all’Anas e dopo la laurea è passato di grado.
In quella foto, studiava ancora da geometra. Doveva cominciare l’ultimo anno. E doveva conoscere Loredana. La vide per le scale, in una casa di via Di Nanni, dove lei abitava, e ci mise un po’ a parlarci. Si sono sposati nell’88. Hanno due figli, Andrea, 23 anni, e Marco, 17. Con i risparmi s’erano comprati una vecchia cascina a Settimo e l’avevano rifatta quasi tutta. Ma era destino che sarebbero tornati dove s’erano conosciuti. Per caso, un giorno videro questa casa e seppero che non ci abitava più nessuno. Vendettero Settimo e la comprarono.
Ecco, adesso il tempo s’è fermato qui da quella foto, in questo bianco e nero un po’ seppiato. Il figlio più grande, Andrea, studia informatica ed è un blogger piuttosto famoso: ha più di 13mila iscritti su Youtube, crea video e videogiochi, si inventa armature con le pezze dei tappetini di yoga, la colla e la resina, e sta per inventare una miniserie tv su Jocker, il cattivo di Batman. E ripete che è fortunato a essere nato oggi: «Guardo questa foto e mi fa tenerezza. Non vorrei esserci». In Calabria, a Grisolia, ci tornano ogni tanto. Non ci vivrebbero mai. L’unica nostalgia, dice Alfonso, è di un tempo che non c’è più, è il respiro del mare, quei giorni da piccoli quando si stava tutti insieme e gli adulti ammazzavano il maiale nell’aia.
Anche guardando questa foto, tornerebbe indietro solo per arrivare dov’è qui adesso, perché abbia un senso tutta quella fatica, tutto quel sudore, quei viaggi sdraiati per terra a cercare il sonno e il sogno di un mondo migliore. C’è questa pace che ti prende la sera quando hai fatto quello che dovevi. C’è in fondo la vita che speravi di avere. È il respiro del mare che non c’è più, solo quello.