Nicola Bruno, Focus 2/2014, 28 gennaio 2014
IL SAPONE TI PARLA
In principio fu lo spam: un’email inviata nel 1978 ai primi 400 utenti di Internet in cui si promuoveva un nuovo modello di computer. Oggi è normale che le nostre caselle di posta elettronica vengano inondate di offerte di ogni tipo, ma all’epoca in molti reagirono infuriati: non era per nulla scontato ricevere un messaggio promozionale tra le comunicazioni personali!
RIVOLUZIONE Nonostante le polemiche che seguirono, la prima pubblicità digitale della storia riuscì nel suo intento: alcuni destinatari del messaggio acquistarono il nuovo computer. E per farlo bastò una email di risposta.
Interattività e pervasività, facilità di raggiungere il target di riferimento, ma anche rischio di invadere la privacy: in fondo non è cambiato molto da quella prima email. Ma le carte sul tavolo delle inserzioni si stanno profondamente rimescolando.
Con un giro di affari di 120 miliardi di dollari, la pubblicità digitale ormai ha conquistato più del 20% del mercato globale delle inserzioni. E, secondo l’istituto di ricerca Zenith Optimedia, questi numeri sono destinati a crescere nei prossimi anni, grazie soprattutto al boom dei dispositivi mobili.
Con tablet e smartphone, sempre più servizi diranno addio ai vecchi modelli ripresi dalla tv o dai giornali (come il banner o gli spot video) per adottare formati nativi (e cioè perfettamente integrati con le dinamiche interattive del dispositivo su cui si trovano). Senza contare Big Data (e la profilazione sempre più accurata di ciascuno di noi) e le mille e una possibilità della realtà aumentata (a cominciare dai Google Glass) e dell’Internet delle Cose (che connette gli oggetti e amplifica le possibilità di “spazi” pubblicitari).
IL PRIMO BANNER. “Hai mai cliccato qui con il tuo mouse? Di certo lo farai”. Così si presentava uno dei primi banner comparsi sul Web. Era il 1994 e la rivista online HotWired faceva debuttare questo nuovo formato in cui il messaggio veniva veicolato nella forma di un lungo striscione (è questa la traduzione letterale di banner). Con il 44 per cento di tasso di clic (e, cioè, quasi un utente su due che interagirono con l’inserzione), il nuovo formato ebbe un successo strepitoso. «I miei figli dicono che è come aver inventato il vaiolo» ha poi riconosciuto il suo inventore Joe McCambley. E, in effetti, i banner hanno letteralmente monopolizzato gli spazi di quel world wide web che allora stava per nascere.
ACCIDENTALI. Secondo una stima dell’agenzia Comscore, ogni giorno arrivano sul mercato 1,2 miliardi di impression (così viene definita la singola visualizzazione di un banner sulle pagine web), che hanno poi la possibilità di essere visualizzati su 100 miliardi di diversi siti internet. Quello che questi numeri, però, non dicono è la reale efficacia dei box lampeggianti. Secondo diversi studi solo un banner su 1.000 viene effettivamente cliccato (e nel 50 per cento dei casi si tratta di un click accidentale), confermando così quel fenomeno che gli esperti definiscono “cecità da banner”. E, cioè, a un certo punto non si fa più caso alle inserzioni che compaiono online, lo sguardo le elimina automaticamente.
EVEREST. È per questo motivo che di recente Jonathan Perelman, vicepresidente di Buzzfeed (la testata online che prima e più di altre sta promuovendo un approccio “nativo” alla pubblicità digitale), ha dichiarato: «È più facile che scali la vetta dell’Everest che non clicchi su un banner».
C’è però un’altra forma di pubblicità che è più facile da cliccare rispetto a un monte da scalare: i contenuti sponsorizzati che troviamo in cima ai risultati dei motori di ricerca. Introdotta prima da Yahoo! e GoTo.com, ma resa popolare da Google, la pubblicità che gli esperti chiamano “paid search” (ricerca a pagamento) oggi cattura più del 50% degli investimenti online negli Stati Uniti, anche perché riesce a offrire contenuti più pertinenti e meno invasivi.
Come Google e Yahoo!, anche Facebook e Twitter hanno presto capito che la loro sopravvivenza non poteva dipendere dai banner: bisognava inventare qualcosa di più efficace. Hanno iniziato a sperimentare formati nativi che l’utente visualizza nel flusso dei normali messaggi. Sono nati così i tweet e i post sponsorizzati, che non si limitano a ripetere sempre lo stesso slogan, ma offrono contenuti originali da condividere con i propri amici. In questo modo, l’utente non è più un semplice target da bombardare, ma una persona con cui interagire e costruire una relazione.
IL BRAND TI PARLA. La pubblicità nativa ci parla ogni giorno anche su Instagram, Pinterest, Google+, LinkedIN, YouTube. In questo modo i grandi brand condividono con noi foto, video, sondaggi, sconti, come se fossero nostri “amici” o “follower”. Con il vantaggio di avere accesso a gran parte delle informazioni sui nostri gusti. E quindi di poterci bersagliare con il messaggio giusto al momento giusto.
Twitter, per esempio, riesce a tenere conto del luogo in cui ci troviamo con le inserzioni geo-referenziate recentemente sperimentate negli Stati Uniti: si attivano solo quando l’utente è nelle vicinanze del luogo di interesse dell’investitore pubblicitario. Tutto ciò ha già aperto (e continuerà ad alimentare) grandi dibattiti sull’utilizzo dei dati personali. Facebook è già stata più volte bacchettata dalle autorità per la privacy, anche perché – nonostante i tentativi dell’Unione Europea – al momento il business dei dati personali si presenta ancora come una giungla per nulla regolamentata dal punto di vista legale. Ed esiste un mercato in cui le nostre informazioni vengono vendute più volte ogni giorno, con un tariffario che, secondo un’inchiesta del Financial Times, si aggira intorno a 1 dollaro per utente.
DA MAD MEN A MATH MEN. Mad Men, una delle serie tv più di successo degli ultimi anni, racconta il mondo dei pubblicitari degli Anni ’50 di Madison Avenue, quando le campagne dei grandi marchi venivano ideate grazie a guizzi di creatività tra bicchieri di Martini e sigari fumanti. Dimenticate pure questa immagine nostalgica, sostiene Tony Evans, direttore di Crimtan, agenzia londinese: «Il nostro lavoro è stato rivoluzionato. Ora passiamo sempre più tempo con i fogli di Excel e le piattaforme di analisi dei dati online». Anche qui gli hacker stanno prendendo il posto dei creativi. E dai “Mad Men” degli Anni ’50 analogici stiamo passando ai più freddi “Math Men” dell’era digitale: «La matematica ti aiuta a capire, dove sono i tuoi destinatari e come inviare loro messaggi personalizzati. È questa la strada del futuro» ha spiegato Joseph Turow, docente all’Università della Pennsylvania e autore del saggio The Daily You: How the New Advertising Industry Is Defining Your Identity and Your Worth (“Il tu quotidiano: come la nuova industria pubblicitaria definisce la tua identità e il tuo valore”) in cui sottolinea opportunità e rischi di una pubblicità profilata sui nostri interessi.
FUTURO. La vera grande promessa in ambito pubblicitario è quella della realtà aumentata (AR), ovvero la possibilità di interagire con il mondo che vediamo ogni giorno attraverso gadget che potenziano la nostra visione. Secondo gli esperti, con l’arrivo dei Google Glass (e decine di altri dispositivi high-tech indossabili, i cosiddetti wearable) questa tecnologia diventerà di massa. E anche qui si apriranno inedite possibilità di marketing. Oltre alle più ovvie offerte speciali che si attiveranno quando passeremo davanti a un negozio, i wearable potranno trasformare la pubblicità in un gioco. Come già fa Candy Lab, società statunitense che permette di vivere un’esperienza videoludica alla Super Mario mentre si passeggia in città; l’obiettivo è raccogliere monete e altri punti in giro per le strade e così magari vincere un caffè nel proprio bar preferito.
OGNI COSA È PUBBLICITÀ. «Grazie all’unione di Big Data e realtà aumentata, i messaggi pubblicitari non saranno più interruttivi» ma potranno arrivare quando ne abbiamo bisogno, è pronto a scommettere Paolo Iabichino, direttore creativo di Ogilvy One Italia, una delle più grandi agenzie pubblicitarie al mondo. Siamo, cioè, solo all’inizio di un fenomeno che porterà la pubblicità a uscire dallo schermo del nostro computer per invadere tutta la realtà che ci circonda: dal frigorifero che ci elencherà le offerte dei prodotti che stanno per finire, all’auto che ci parlerà quando saremo nelle vicinanze di un ristorante che ci è piaciuto. «Proprio perché è tutto pubblicità, la sfida dei creativi sarà quella di mettere a disposizione contenuti davvero utili e pertinenti» sottolinea Iabichino. Così, gli inserzionisti potranno finalmente fare quel salto auspicato da Joe McCambley, il padre (pentito) del banner: passare dal “cosa posso venderti” al “come posso aiutarti?”. In fondo, in questo passaggio sta la differenza tra una pubblicità che funziona e lo spam.
Nicola Bruno