Danilo Taino, Corriere della Sera 28/1/2014, 28 gennaio 2014
ATTENZIONE ALLA POLITICA QUANDO SI INVESTE SULLA VALUTA DI ERDOGAN
Le politiche interne dei singoli Paesi contano, moltissimo, nella crisi valutaria e finanziaria in atto nei Paesi emergenti. Nell’Argentina della populista Cristina Fernández de Kirchner lo si è visto nei giorni scorsi. Ora è arrivato il momento della Turchia. Il Paese guidato dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan è in una fase di debolezza economica e finanziaria. La crescita, che era stata dell’8% nel 2010 e nel 2011, è scesa al 3,6% l’anno scorso, il deficit dei conti correnti è di una sessantina di miliardi di dollari, le riserve valutarie sono, a meno di 40 miliardi di dollari, insufficienti per difendere la lira (la valuta turca) da un possibile attacco dei mercati.
In queste condizioni, il Paese è vulnerabile al sentimento degli investitori, oggi scettici sulle prospettive dei Paesi emergenti. La banca centrale avrebbe dovuto alzare i tassi d’interesse per difendere la valuta e forse questa sera lo farà. Ma finora Erdogan si è opposto al rialzo, che creerebbe scontento tra i cittadini in un importante anno elettorale (e dopo uno scandalo politico che ha coinvolto il suo governo a fine 2013). Nel peggiore stile autoritario, il primo ministro ha sostenuto che la crisi è frutto della speculazione della «lobby dei tassi d’interesse». Risultato, regola confermata: impedire con l’autoritarismo che le istituzioni – nel caso in questione la banca centrale – facciano il loro lavoro crea più guai che vantaggi.
Negli anni recenti, gli italiani hanno scoperto la Turchia come meta di investimenti. Le imprese sono molte e spesso presenti da tempo, giustamente attratte da un’economia vibrante: Unicredit, Intesa, Pirelli, New Holland, Generali e altre decine. La crisi le riguarda ma non le farà fuggire. Diverso è il caso degli investitori finanziari, diretti o veicolati da fondi, che hanno scommesso sulla lira ritenendola stabile: a loro, la crisi in atto ricorda che il rischio politico va sempre tenuto in considerazione; a maggior ragione nei Paesi autoritari i cui governi credono di potere litigare con i mercati e vincere.