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 2014  gennaio 28 Martedì calendario

I NUOVI PADRONI DEL PETROLIO – [USA CINA CACCIA ALL’ULTIMO BARILE]


L’oasis persa nel deserto, vicino al confine con l’Iran, è fortificata. Ma, superate le difese esterne, si arriva alle villette a schiera, che fanno corona ad un lago artificiale, solcato dalle barche a vela. Un aeroporto è poco distante, come anche le torri di metallo e le cisterne del campo petrolifero. Il giacimento di Halfaya, nel sud est dell’Iraq, non ha nulla di speciale: insediamenti così ce ne sono decine, sparsi nel mondo. Ancora pochi, però, hanno due statue di leoni in pietra davanti alla sede degli uffici. Servono a tenere lontani gli spiriti maligni. Almeno, secondo gli scongiuri cinesi. Perché questo è il campo di Petrochina e non è neanche il più importante investimento cinese in Iraq. I petrolieri di Pechino sono presenti anche a Rumaila, a West Qurna, in quasi tutti i giacimenti più interessanti: ci investono 2 miliardi di dollari l’anno. Secondo l’analista libanese As Safir, nessuno investe più di loro nel greggio iracheno. Ovvero, in una delle leve-chiave, ancora da scoprire, del futuro nuovo ordine geopolitico mondiale, perché quel greggio, secondo molti, è destinato, presto, a insidiare l’egemonia saudita sull’Opec e sul petrolio mondiale.

Quando George Bush, Dick Cheney e i neocon che stavano intorno decisero di invadere l’Iraq, non avevano messo in conto che, dieci anni dopo, come notano senza entusiasmo gli analisti del Pentagono, il maggiore beneficiario del dopo-Saddam sarebbe stata la Cina.
Attualmente, la Cina importa dall’Iraq un milione e mezzo di barili di greggio al giorno, quasi metà della produzione di Bagdad, e ne importerebbe volentieri anche molti di più, per soddisfare una sete inestinguibile di energia, che ne ha fatto il maggior importatore di greggio al mondo, scavalcando gli Stati Uniti. Di fatto, nel giro di pochi anni, Pechino è diventato il principale protagonista del mercato mondiale del petrolio. Anche in quel ricco bacino del Golfo Persico che, fino a ieri, era il giardino di casa degli americani. La Cina importa dal Medio Oriente 2,9 milioni di barili di greggio al giorno, gli Stati Uniti 2,5. Ma questo ci dice solo quanto sono rilevanti i due clienti per i signori dell’Opec. È, probabilmente, più importante il contrario: quanto è importante l’Opec per i due clienti. La Cina importa un quarto del suo fabbisogno complessivo di petrolio dall’Iraq e un altro quinto dall’Arabia saudita: in totale, il 60 per cento delle importazioni cinesi viene dal Medio Oriente. L’import americano dai giacimenti del Golfo è solo il 26 per cento del totale. Ed è soltanto l’inizio.
L’attivismo che sta spingendo i cinesi a investire 12 miliardi di dollari l’anno nello sfruttamento mondiale di petrolio e gas non avrebbe, probabilmente, gli stessi effetti se non si accoppiasse alla ritirata in corso degli Stati Uniti. La “rivoluzione dello shale” (il petrolio e il gas estratti dopo aver frantumato le rocce che li custodiscono) non darà a lungo, probabilmente, agli Usa l’indipendenza energetica, in cui sperano molti americani. Gli esperti prevedono che il boom di produzione si esaurisca, prima di una decina d’anni. Ma, unita ad una maggiore efficienza di utilizzo, che riduce i consumi, e alla disponibilità di nuove fonti di approvvigionamento in Brasile e in Canada, significa che l’impronta degli Stati Uniti sul mercato del petrolio, in particolare quello cruciale del Golfo, è destinata a sbiadire. Le previsioni della Iea (il braccio petrolifero dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi più industrializzati) sono brutali per gli sceicchi. Le esportazioni di greggio verso gli Usa scenderanno, nel giro di venti anni, da 1,9 milioni di barili al giorno alla trascurabile cifra di 100 mila barili. Un tracollo. Compensato, però, da un aumento delle importazioni cinesi da 2,9 milioni a 6,7 milioni di barili al giorno. Gli sceicchi sanno dove devono guardare. Le petroliere che si incanalano giù per il Golfo Persico, una volta superato lo stretto di Hormuz girano quasi sempre a sinistra, verso Est, non a destra verso Ovest.
Il problema è che i guardiani di Hormuz, quelli che garantiscono il libero passaggio delle petroliere non sono i cinesi che, nell’area, hanno poco più di una motovedetta, ma gli americani, con il potente spiegamento della Quinta Flotta, simbolo ed espressione della loro egemonia militare nella regione. Per conto e a favore di chi, si chiedono gli analisti a Washington, sorvegliamo lo stretto, se quel petrolio non ci interessa e non ci serve? Il ruolo geostrategico mondiale degli Stati Uniti è in gioco nel cuore di una regione decisiva per l’approvvigionamento energetico mondiale. Se questo non fosse chiaro, ci pensano gli stessi petrolieri americani a far notare che Hormuz è vitale comunque. Il mercato petrolifero è globale e intercomunicante: un’impennata dei prezzi del barile in seguito ad un blocco del greggio del Golfo si ripercuoterebbe immediatamente anche sui prezzi del greggio estratto all’altro capo del globo.
A scanso di equivoci, lo stesso ragionamento, ai diplomatici americani, lo hanno fatto i cinesi, nei contatti ad alto livello fra le due capitali. Secondo le indiscrezioni, gli uomini di Pechino hanno chiesto più volte agli americani precise garanzie sulla sorveglianza dello stretto e sul libero passaggio delle petroliere. Gli stessi colloqui hanno, però, mostrato tutte le difficoltà di un gioco completamente nuovo, in un’area cruciale per gli equilibri geopolitici mondiali. Washington si trova davanti, a sorpresa, un interlocutore diventato, in pochi anni, decisivo, che non sono i russi, che non assomiglia ai russi e di cui è, tradizionalmente, difficile leggere le intenzioni. Nei centri studi americani, dal Csis alla Brookings, si sottolinea il carattere dichiaratamente “solo economico” dell’offensiva cinese in Medio Oriente. Le aziende cinesi, tutte statali e controllate strettamente dal governo di Pechino, evitano accuratamente di schierarsi nel difficile panorama iracheno e collaborano attivamente con le big del petrolio occidentale: lo sfruttamento dei giacimenti iracheni avviene, quasi sempre, con joint ventures in cui i cinesi siedono accanto a Bp o a Exxon. Ad un livello più alto, si fa notare, i cinesi si sono adeguati senza troppe proteste all’embargo anti-iraniano e hanno contribuito ai colloqui con i nuovi dirigenti di Teheran. Per qualcuno, anche in luoghi abitualmente diffidenti, come i think-tank israeliani, è la prova che il Medio Oriente può essere la sede di una “cooperazione” fra Usa e i nuovi «partner nel gioco dell’energia», come definisce i cinesi l’Institute for Structural Reforms di Tel Aviv. Per i cinesi, del resto, sottolinea Erica Downs della Brookings, non si tratta solo di posizioni di principio. Pechino è molto sensibile agli atteggiamenti dell’opinione pubblica americana nei suoi confronti, perché sono in ballo parecchi soldi. Metà degli investimenti in fusioni e acquisizioni di società nel settore energia compiute in questi anni da Pechino sono negli Stati Uniti, dove i cinesi hanno messo in gioco, solo negli ultimi tre anni, 8 miliardi di dollari.
Ma i contatti diplomatici hanno anche fatto emergere la sordità dei cinesi agli appelli per un sostegno più fermo alle posizioni americane su Siria ed Iran. In generale, l’approccio “solo economico” cinese va a sbattere frequentemente con posizioni e interessi americani. In Iraq, i cinesi si fanno largo perché sono pronti ad accettare, con grande fastidio delle multinazionali, i contratti stringenti e i profitti bassi che offre Bagdad, dato che il loro problema principale è avere il greggio, piuttosto che guadagnarci sopra. Come si è visto in Africa, inoltre, il rifiuto a considerare la politica li porta a sostenere regimi o scelte politiche discutibili o, comunque, invise agli americani: nella miscela ribollente di politica, religione ed economia che agita un fenomeno ancora tutto da decifrare, come la “primavera araba”, può essere la ricetta per guai sicuri. «In Sudan come in Libia — elenca infine Yitzhack Schichor della Hebrew University di Gerusalemme — gli occidentali se ne vanno e i cinesi si precipitano a sostituirli. Washington rifiuta di vendere missili a Riad ed ecco l’accordo cinesi-sauditi. Gli americani non vogliono vendere armi alla Turchia e ci pensano i cinesi ». «Più che di approccio solo economico — ha scritto John Lee per il Csis — bisogna parlare di un “la Cina prima di tutto”». Facile da leggere, ma, in quel calderone esplosivo che è sempre stato il Golfo, non altrettanto facile, per gli interlocutori, da maneggiare.