Renato Minore, Il Messaggero 25/1/2014, 25 gennaio 2014
RAVASI: IMPLACABILE DANTE
L’INTERVISTA
Da circa un anno il Cardinale Gianfranco Ravasi è il Presidente della Casa di Dante che, in questi giorni ha festeggiato il primo centenario. Come presidente del Pontificio Consiglio della Cultura della Santa Sede, ha costituito un Comitato scientifico-organizzativo per promuovere le celebrazioni del settimo centenario della morte di Dante, nel 2021. Tra i suoi programmi riproporre l’istituzione di una cattedra di Studi danteschi, favorire incontri e seminari sui temi della ricerca scientifica nel confronto con altri saperi, rilanciare Dante tra i giovani. «Anche alla casa di Dante, che appartiene al settore alto della divulgazione, si ritornerà in piazza», dice. Benigni era pronto a una lettura, verrà nei prossimi mesi. «Ha avuto il merito e il coraggio di mostrare come Dante sappia parlare all’uomo di oggi. In una frase dice su realtà profonde tutto quello che raffinati intellettuali non sarebbero in grado di spiegare nemmeno con migliaia di parole».
Eminenza: anche se Dante è tanto distante da noi, il suo poema sembra scritto per la posterità. Se dalla sua "attualità" dovesse estrarre qualche motivo più forte per leggerlo nella nostra «attualità», quale sceglierebbe?
«Il primo motivo è quello dell’interrogazione. Le domande estreme, le domande fondamentali. Oggi c’è una miriade di risposte, ma un’anoressia di domande. Il ragazzo mette al computer la parola “speranze”, escono centoventimila risposte. Tutto e il contrario e di tutto. Oscar Wilde diceva: “Le risposte sono capaci di darle tutti, per le domande ci vuole un genio”. I veri geni sono quelli simbolici, mantengono la capacità del sistema, fanno un mosaico della realtà comprendendola come molteplice, nella sua totalità. Dante ha costruito un sistema a tutti i livelli, con il suo spirito “sistematico” medievale - un respiro che noi abbiamo perso - può esserci d’aiuto. Spesso ci si perde dietro a piccoli particolari, non si tiene conto di tutto l’affresco. I grandi maestri sono quelli che sono stati capaci di darti una visione, non solo un’attrezzatura».
Dante impersona la tensione tra il laico credente, l’artista profetico, la gerarchia della Chiesa, è un esempio di fedeltà e libertà dalla religione. Ha parlato con parole forti alla Chiesa e della Chiesa del suo tempo. Con la stessa durezza si potrebbe parlare dei preti pedofili?
«La sua voce è ininterrottamente striata di protesta contro ingiustizie e prevaricazioni. Dante non teme di scendere nella valle della storia e nella polvere delle vicende, non di rado “infernali”, che noi viviamo. Se ci fosse Dante oggi, sarebbe stato implacabile sugli scandali. Ma c’è una differenza fondamentale: la cultura contemporanea ha l’elemento della curiosità. L’accusa è fatta con gusto quasi erotico nell’entrare in questo mondo degradato, per una questione di polemica. Manca il turgore dell’indignazione. Lo sdegno è una virtù, l’ira è un vizio, è aggressione nei confronti dell’altro. Come ci ha ricordato Papa Francesco, lo sdegno non esaurisce la reazione iniziale nei confronti del male. Esiste anche la pietà, la misericordia nei confronti del peccatore».
Il suo amore per Dante è sicuramente rivolto anche al «teologo dei poeti», alla teologia che innerva i suoi versi. La teologia ha ispirato la sua grandissima poesia, è stata capace di rappresentare un’epoca in una summa poetica. Invece la teologia contemporanea più che ispirare cerca la poesia. Perché, cosa ha perduto e cosa cerca?
«Dante sa inglobare e trasfigurare nel linguaggio della poesia la teologia e l’esegesi del suo tempo, di cui aveva una conoscenza tecnica molto profonda. Un limite molto grave per la teologia si è registrato nell’Ottocento per reazione all’illuminismo: il testo biblico, per essere conosciuto nella sua autenticità, doveva essere spogliato del suo significato simbolico. Ciò ha portato a una teologia simili a una sequenza di algidi teoremi teologici. Dalla metà del Novecento si è tornati alla consapevolezza del rilievo simbolico. La rappresentazione più alta si è avuta con von Balthasar. Che ha spiegato quanto fosse necessario riservare attenzione alle opere artistiche, non solo letterarie, ma anche plastiche e figurative, perché esse non sono, diceva, “soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri luoghi teologici”. Mi piacerebbe che si potesse insegnare l’opera di Dante con tale criterio di fondo. Speriamo che, ancora attraverso la riproposizione della Bibbia, della sua forza di grande codice, la teologia torni a una teologia “detta in modo bello”, recuperando la dimensione estetica, come una stella polare in grado d’illuminare la cultura contemporanea».
Qual è il canto che più frequentemente le capita di rileggere e perché?
«Ho avuto l’esempio di Giovanni Galbiati, mio predecessore alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Si era fatto costruire una torretta - che io avrei poi utilizzato come mio piccolo studio privato - nella quale ogni giorno saliva per leggere un canto della Commedia. Probabilmente considerava la poesia come un esercizio dell’anima, per lui era come una preghiera. Io non posso farlo. Ma cerco di adottare quel metodo: ogni giorno un canto per ogni giorno. Come breviario laico. Dante è necessario a tutti in tutti i tempi, sa intrecciare realismo e utopia, verità umana aspra e verità divina salvifica».