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 2014  gennaio 25 Sabato calendario

VON TRIER, MA CHE PORNO. C’È PIÙ HEGEL CHE SESSO

Il lancio promozionale di Nymphomaniac, un tormentone durato più di un anno, deve essere stato uno spasso per Von Trier. Deve essere stato spassoso, infatti, creare l’aura del film-scandalo attorno a un’opera concettuale fatta di dialoghi filosofici frammisti a coiti.
Nel 2012 Von Trier annuncia che avrebbe girato un porno sulla vita sessuale di una ninfomane. Parte il toto-attore: chi si farà penetrare in nome dell’arte? Di sicuro Charlotte Gainsbourg, Willem Dafoe e per un po’ si vociferò di Nicole Kidman. Sulle indiscrezioni ci si è spesi parecchio: «Uma Thurman ha girato una scena hard»,«Shia LaBeouf è stato scelto inviando la foto del suo pene», «La Kidman lascia il film perché non vuole fare sesso reale».
Lo stillicidio si è intensificato quest’autunno, quando il beffardo Von Trier ha mostrato le locandine dell’orgasmo, i poster degli attori immortalati in primo piano mentre godono. I siti li riprendono seduta stante, circolano sui social e l’ossessione cresce. Poi le prime clip, centellinate col contagocce. Non mostrano ovviamente nulla, ma fanno tanto atmosfera morbosa. L’aura di Nymphomaniac si rinfocola con un costante meccanismo stimolo-risposta: basta una foto (ecco le prime foto del film!) o la dichiarazione di un attore («era difficile trattenere la pipì per ore, perché indossavamo genitali finti») ed è subito notizia. A un certo punto si rende noto che Nymphomaniac avrà due versioni: quella porno (che sarà presentata a Berlino) e quella soft. In ogni caso al cinema uscirà in due parti, Vol I e Vol II (in Italia probabilmente a marzo, per la Good Films). Infine l’annuncio capolavoro: in Danimarca Nymphomaniac sarà in sala il giorno di Natale. Un film pieno di scopate nel giorno più sacro. Geniale. Una macchina di promozione in realtà fatta di niente ma sostenuta dal voyeurismo di tutti.
Geniale, perché diversamente non avremmo mai parlato tanto di un film marcatamente filosofico, che racconta l’evoluzione mentale di una donna attraverso la sua erotomania metodologica . Non avremmo parlato dell’impronta squisitamente dreyeriana dell’opera (sai quanti titoli sui giornali...) unita all’afflato metafisico di De Sade che rende Nymphomaniac un arguto puzzle teoretico. Si sarebbe mai discusso di un film fatto di dialoghi che vertono sulle serie numeriche di Fibonacci, sull’armonia tonale di Bach, su Edgar Allan Poe, sull’inferenza logica? E di come tutto questo trovi analogie con la sessualità intesa come codice linguistico, come fredda razionalità spinta alle estreme conseguenze?
Perché è proprio questo che ci regala (o propina, a seconda dei gusti) il danese. Un’opera ingegnosa sulla difficoltà di trovare un fondamento credibile, un nesso tra cervello e corpo. E di erotismo ce n’è meno di niente. Visto a Madrid, Nymphomaniac Vol I non risponde a nulla di ciò che potevamo immaginarci. Emozionante, ben scritto, strutturalmente solido e stranamente pacato nella sua ferocia, è la storia di Joe (Gainsbourg da adulta, Stacy Martin da ragazza) che, raccolta svenuta e ferita da un uomo gentile (Stellan Skarsgård), racconta attraverso flash back la sua vita di ninfomane, partendo dalla masturbazione, dallo sverginamento, fino alla gara record di scopate e alla pianificazione teutonica di 8 incontri al giorno per sfamare il vizio che la tiene in vita. Il sesso è assolutamente centrale, non si discute. Ma è rappresentato in maniera oggettivata, algida, per nulla eccitante perché è espressione razionale, è coito computazionale. Il problema della protagonista, che per 2 ore parla in pigiama con l’uomo che l’ha ospitata, è dare un senso alle sue azioni. E l’ascoltatore-aiutante, sorta di terapeuta-filosofo, cerca in ogni modo di mostrarle che sta cercando a modo suo un punto di osservazione stabile con cui dare consistenza al mondo e da cui osservare la propria interiorità. Nymphomaniac è bello e sorprendente e mette in scena soprattutto una crisi della possibilità di conoscere, che peggiora con l’età adulta e anzi si disgrega. Per tutto questo merita un applauso. Alla faccia del marketing, si vede “solo” un film fuori dall’ordinario che era impossibile prefigurarsi. Giocando con gli stereotipi e gli schematismi della comunicazione rapida, quindi stupida, Von Trier ha creato un’attesa pruriginosa per un film in cui si chiede come facciamo a conoscere qualcosa realmente. Se esiste una conoscenza che non sia mediata. Se esiste un sapere che non sia linguistico. E prima che i Rammstein cantino la strepitosa Führe mich sui titoli di coda, Von Trier si toglie anche un sassolino dalla scarpa. «Sono antisionista, non antisemita. Non è affatto la stessa cosa». La persona non grata del festival Cannes 2011 affida a una battuta di Stellan Skarsgård la propria precisazione sul polverone sollevato due anni e mezzo fa. Quando disse: «Bè... io capisco Hitler... cioè lo capisco come uomo, non che fosse un tizio a posto... ma lo capisco». E fu allontanato dalla Croisette con disdoro. Di quel chiacchiericcio chiamato “comunicazione”, che non deve piacergli granché ma che dimostra di saper sfruttare, Lars von Trier si è preso nel complesso una sottile vendetta. Servono “casi” per vendere un film? Von Trier fa il suo gioco. Per poi rifilarci Nymphomaniac, che ha più a che fare con Hegel che con l’orgasmo.