Silvia D’Onghia, Il Fatto Quotidiano 25/1/2014, 25 gennaio 2014
“LA FARNESINA STA LASCIANDO MORIRE MIO MARITO”
Una cella di due metri e mezzo per tre con una finestrella di 30 centimetri e una porta senza feritoia. Una sbobba di cibo nella quale già una volta qualcuno ha urinato e un secchio d’acqua al giorno, che lo pone di fronte a una scelta: bere o lavarsi. La malaria, compagna degli ultimi mesi, che ogni tanto torna a farsi sentire con la febbre, senza avere la possibilità di essere visitato da un medico. Un materassino spesso pochi centimetri buttato a terra e impregnato di sudore e un piccolo ventilatore, utilizzato di notte anche per cercare di allontanare gli insetti. Già, perché in Guinea Equatoriale ci sono 40 gradi e Roberto Berardi vive così, da 42 giorni, in una cella di isolamento. Senza che nessuno, a quanto pare, muova un dito per riportarlo in Italia.
“ROBERTO è in carcere da un anno – racconta al Fatto l’ex moglie Rossella – e in un anno soltanto tre volte la rappresentanza italiana gli ha fatto visita. Almeno questo è quello che sappiamo, visto che ci danno notizie solo alcuni amici del posto”.
Berardi è un imprenditore di 48 anni, una vita spesa tra Latina e l’Africa, dove risiede e lavora da molti anni. Tutta la famiglia impiegata nelle sue aziende, tanti dipendenti, affari che vanno a gonfie vele fino a quando, tre anni fa, decide di mettere su un’impresa in Guinea Equatoriale. Dovendo attenersi alle regole del Paese, scritte e soprattutto non scritte, deve trovare un socio locale di maggioranza. E chi meglio – pensa Berardi – del figlio del presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, che ha dimostrato interesse per l’attività? Peccato che Obiang fondi il suo regime sul terrore e sulla repressione sanguinosa e che, mentre il Paese ricco di petrolio ha il maggior reddito pro capite dell’intero continente, oltre il 75 per cento della popolazione sopravviva con meno di un dollaro al giorno.
I due fondano così la Eloba Construccion, che naturalmente riceve parecchie commesse governative. Tutto fila liscio fino a quando, dicono i suoi familiari, Berardi non scopre un giro di sottrazioni di denaro e di malversazioni proprio da parte del figlio del presidente. Una catastrofe. “Ho chiesto chiarimenti – racconta lo stesso Berardi in un’accorata lettera di qualche mese fa – ottenendo come unico risultato quello di essere prelevato nella notte dalla mia casa, strappato alla mia famiglia e tradotto in carcere”.
Questo accade il 19 gennaio 2013. Ad agosto Berardi viene condannato per appropriazione indebita a due anni e quattro mesi di reclusione o al pagamento di un milione e duecentomila euro di ammenda, che né lui né la sua famiglia possiedono: le banche del Paese africano gli hanno sequestrato tutto, persino gli abiti trovati durante la notte dell’arresto. “Roberto è stato coinvolto in un giro più grande di lui”, spiega l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che in Italia assiste le famiglie Aldrovandi, Cucchi e Uva, scelto anche per riuscire a ottenere un po’ di clamore mediatico. “Basti pensare – aggiunge – che, a carico del vicepresidente guineano gli Stati Uniti hanno intentato un processo per riciclaggio internazionale e che le autorità francesi gli hanno sequestrato proprietà immobiliari di lusso e una scuderia di auto da sogno”. “Vogliono farlo morire in carcere, gliel’hanno detto – prosegue l’ex moglie – così che non possa testimoniare al processo americano, nel quale figura come vittima e testimone fondamentale”.
E L’ITALIA in tutto questo? Tace, anche perché non ha accordi bilaterali con la Guinea Equatoriale che potrebbero consentire a Berardi di scontare la pena nelle patrie galere e non ha nemmeno una rappresentanza diplomatico-consolare nel Paese: “All’inizio ci avevano chiesto di rimanere in silenzio, che avrebbero pensato a tutto loro, ma adesso la situazione è diventata gravissima e abbiamo la sensazione che non sia stato fatto proprio niente”. Inutile è stata finora anche un’interrogazione parlamentare avanzata dai 5 Stelle.
“Mi sento offeso che non riusciate a imporre a un Paese così piccolo il rispetto delle regole internazionali”, manda a dire alle autorità italiane l’imprenditore pontino. “Dalla Farnesina, nonostante richieste, proteste e sit in, non sappiamo nulla – conclude Rossella –. Abbiamo anche portato uno striscione in Vaticano. Per favore, Roberto sta morendo: aiutateci a riportarlo a casa”.